La parola “Horror” è incatenata ad un immaginario violento, terrorizzante e spesso disgustoso, grondante sangue cavato con sistematiche ingegnosamente sadiche. A questa caratterizzazione ha contribuito il mezzo cinematografico, usato nella sua ricerca di mimesi del vero, tanto da rendere iper realistica ogni efferatezza. Ma l’Orrore, fin dalle sue origini, è stato altra cosa. Paura istillata nell’animo, angoscia da ricerca esistenziale, attrazione verso la morte e l’aldilà. Quand’anche ci fosse stato uno smembramento esso era dovuto ad una nobile causa ( L’Edipo di Sofocle, nella scena madre di una tragedia (V secolo a.C.) che costituisce forse la nascita dell’horror, si estirpa gli occhi dalla disperazione quando scopre di aver sposato sua madre). Insomma le storie d’orrore sono dei melodrammi col make-up da “horror” e i mostri del passato – umani o ibridi che siano – si trovano tutti nel ruolo di vittime. Roderick e Madeline Usher, proprietari dell’omonima dimora, non sono forse fragili malati di mente in auto isolamento per eccesso di sensibilità? Frankenstein non è un artefatto, costruito da un pazzo, alla penosa ricerca dell’anima? Il mostro della laguna nera non è uno scarto evoluzionistico perseguitato da scienziati-cacciatori? L’uomo lupo e King Kong non muoiono per amore? I Freaks di Browning e l’Elefant man di Lynch non sono commoventi emarginati vittime del razzismo? E potremmo continuare all’infinito ma il punto è che se ci si chiede cosa resta di questi personaggi, la risposta è univoca, resta la faccia. Quella faccia che, divenuta icona – sia sempre lode a Jack Pierce, uno dei più grandi artigiani di Hollywood morto in disgrazia – ha finito per occultare fin troppo la malinconia insita nel mostro.
C’è ancora un poeta, Chris Mars, che crea situazioni horror nelle quali la malinconia è più forte della deformazione. E’ il rivendicatore di quella nobiltà del genere che sembrava perduta. Non si tratta però di un regista o di uno scrittore bensì di un pittore, uno che lavora con la tecnica classica dell’olio su tavola, uno che cita con nonchalance i volti dei ritratti di Leonardo, lasciando intatta la loro aura di mistero soffuso e contemporaneamente calandoli in un contesto dove l’umanità postatomica porta le stigmate delle radiazioni. Di fronte alle opere di Mars si resta interdetti. Sono orribili ma fanno scendere le lacrime. Mostrano una corte dei miracoli o un carnevale dei folli, con maschere schifose che occultano solo parzialmente volti ancora più brutti. Il paesaggio si schiaccia in casette alla Hansel e Gretel dove lo zucchero brillante è diventato una pasta organica già marcia, qualcosa che si colloca tra la carne ed il marmo, ma un marmo invaso da carcinoma. Per la verità non c’è distinzione tra la materia costituente gli elementi di sfondo e quella propria dei personaggi, tozzi, con la pelle da batrace e le zampe dure da crostaceo. Sembra di guardare un bassorilievo romanico eseguito da un Wiligelmo sotto assunzione di stramonio. Chi ha visto queste immagini ha subito trovato un parallelo con la pittura di Hans Rudi Giger; certo alcune somiglianze sono innegabili ma Giger è un artista in cerca dell’eleganza, c’è uno slancio Jugendstil nei suoi mostri. Giger, in modo consapevolmente demoniaco, esibisce tutto il fascino della seduzione maligna. Mars, al contrario, non si compiace del Male, rivela una scelta sofferta nell’estetica del brutto che è anche buono, un buono disgraziato. Mars sa che è difficile avere un pubblico dipingendo lombrichi con le emorroidi e budelli che sputano liquidi verdi, ma opta per la scelta più ardua perché costituisce la sua verità. La verità, arriviamo al nocciolo, è quella del disagio vissuto da chi è affetto da malattia, in particolar modo quella mentale. Dobbiamo allora entrare nel dolore intimo dell’artista e conoscere alcuni fatti della sua vita privata.
Chris Mars, nasce a Minneapolis (dove risiede tuttora), nel Minnesota, nel 1961. Da bambino resta segnato dai ricoveri di Joe, suo fratello maggiore, a cui viene diagnosticata all’età di sedici anni una forma di schizofrenia. Da allora sarà un andirivieni del fratello dagli ospedali psichiatrici, nei quali anche l’artista si reca in visita. In quegli anni Chris libera la sua creatività militando come batterista nei The Replacements, un gruppo rock di ispirazione punk. Le frequentazioni ospedaliere lo mettono in contatto con una realtà molto triste e le riflessioni che ne scaturiscono saranno determinanti nella focalizzazione della sua poetica. Dopo la separazione dalla band continua un percorso da solista come cantautore pop fin quando, nel 1996, la musica viene abbandonata per dedicarsi alla pittura, con risultati stupefacenti, molteplici esposizioni a partire dal 2000 ed alcune opere custodite in cinque importanti musei americani.
Abbiamo già tirato in ballo Leonardo e Wiligelmo, poi Giger; bisogna aggiungere ai riferimenti di Mars la pittura tedesca degli anni Venti (quella solitamente definita “nuova Oggettività”), in particolare Christian Schad e Otto Dix. Ed infatti per cercare di inquadrare le opere di Mars potremmo parlare di “espressionismo surrealista a sfondo sociale”; l’uomo non è destinato a soffrire per natura, c’è invece una causa, ed è data dall’uomo stesso, o meglio da certi suoi comportamenti legati all’egoismo, alla volontà di sopraffazione, al bisogno di un’affermazione sul prossimo che va contro alle regole del vivere civile. Osservando con attenzione i suoi quadri si individuano infatti elementi simbolici introdotti come critiche a gran parte del vivere contemporaneo. La sua umanità derelitta e bisognosa di pietà è frutto di pregiudizi dovuti all’ignoranza, al capitalismo, al consumismo, alla videodipendenza, all’industria del divertimento coatto, all’alcoolismo, agli errori del sistema giudiziario, a quelli del bigottismo religioso e soprattutto a quelli prodotti dalla guerra e da una scienza cattiva e scriteriata. “ Bush Crusade White Phosporus ” si legge in uno dei suoi lavori e “The Perils of Spent Uranium” in un altro. Ritratti grotteschi del Presidente appaiono in varie opere, contornati dai soliti monconi sub-umani e stagliati su sfondi di costruzioni fiammeggianti. Al contempo arrivano i medici-zombi in camice bianco, siringhe alla mano e macchine della tortura al seguito: infieriscono sui malati, stretti in camicie di forza, come su fantocci voo-doo, e tutti, dottori e pazienti, riportano vistose escoriazioni (il brutto esteriore delle vittime e quello interiore dei carnefici) che nulla concedono alle tecno perversioni stilosamente modaiole del cinema digitale e dei videoclip. Anche i diffusi budelli gocciolanti sanno di ricovero e sono chiari richiami ai cateteri ed alle flebo. In mezzo a questa folla da incubo (che inevitabilmente ci costringe fare altri due nomi celebri, Bruegel e Bosch), ogni tanto una figura femminile di bellezza struggente ma già contaminata si erge al di sopra del brulichio. E’ la regina di quel carnevale focomelico, la cui armonia contrasta con le deturpazioni generali. Si erge con la poesia che hanno le cose irraggiungibili e precarie, perfetta nell’ovale del volto e nelle dimensioni piccole del naso (i ritratti leonardeschi di cui dicevamo prima) ma con la bocca compromessa dalle slabbrature del rossetto, primo sintomo di contagio. In altri casi compaiono delle schiacciature periferiche, la nuca, le orecchie, e si intuisce che in breve tempo il male devasterà l’intero volto. Lo sguardo di quelle signore è disarmante; Mars dipinge con maestria e realismo fotografico le trasparenze vitree dei loro occhi, centro attrattivo dei dipinti, che poi vengono completati con cornici dalle volute barocche, intagliate e a volte impreziosite con castoni di pietre dure. E’ una pittura veramente colta quella di Mars, gronda di riferimenti alla Storia dell’Arte passata, la reinterpreta in chiave contemporanea senza mai copiare nessuno, e rifiuta l’estetica fine a se stessa per schierarsi dalla parte delle brutture dei derelitti. Invita anche gli spettatori a scavare nel profondo, a riflettere su se stessi, su chi si è realmente. Il tema del doppio trova nella sua pittura un’incarnazione ottimale, e forse più che di doppio si tratta di frammentazione dell’io; tra i personaggi del circo Mars spuntano ventriloqui con i loro fantocci (come del resto abbiamo detto dei dottori con i loro pazienti ), e maschere. Inoltre osservando certi suoi dipinti si ha l’impressione, sgradevole, di essere davanti ad uno specchio. La luce in questi ritratti giunge dal basso, lo sfondo resta nell’ombra, il risultato è sempre inquietante. C’è in particolare un quadro intitolato Longing for Solitude che rappresenta un capolavoro del ritratto bizzarro e rievoca il più celebre dei “dipinti letterari”, quello eseguito da Basil Hallward, quando, alla fine del racconto, tutte le malvagità di Dorian Gray si materializzano sulla tela. Nel 1945, quando Albert Lewin girò la trasposizione cinematografica del romanzo di Wilde, per la realizzazione del dipinto coinvolse Ivan Albright, un artista oggi dimenticato, pietra miliare dell’estetica del corruttibile. Albright realizzò un’opera spaventosa, le cui riprese a colori montate in un film in bianco e nero risultarono realmente disturbanti; lo stile, per quanto costretto in un maggior realismo dovuto in parte alle esigenze filmiche ed in parte alla stessa poetica del pittore, è singolarmente simile a quello di Mars. Il quale tra l’altro, proprio come nel romanzo, è riuscito a dar vita ai suoi dipinti, trasponendoli in cortometraggi ed animandoli; l’essere partito da immagini bidimensionali ha determinato le movenze sincopate e ripetitive dei personaggi, ribadendo la metafora della marionetta. Ma le interpretazioni più personali del concetto di doppelganger le troviamo in alcuni dipinti in cui grandi volti frontali si dividono con processo di mitosi cellulare per generare due o più volti di profilo, generalmente dominati da un nucleo-occhio dall’aspetto spiritato. Viene da chiedersi se Chris Mars sia uno di quegli artisti, e non sono pochi nella Storia, il cui genio è determinato da un’alterata percezione del reale dovuta ad instabilità psicologica. E c’è da rispondersi che, se così fosse, Mars non sarebbe altro che fiero di essere dalla parte degli sfortunati, tristi, martoriati, onestissimi freaks.
L’articolo proposto è stato scritto diversi anni fa per il numero 1 dell’edizione italiana del magazine Rue Morgue, mai giunto in edicola. Nel frattempo Chris Mars ha acquisito notorietà e vanta moltissimi seguaci in rete, dove lo si può anche vedere all’opera. Non esiste ancora nessun testo critico italiano relativo alla sua pittura. Per chi, come il sottoscritto, non può fare a meno della carta stampata si consiglia l’unica monografia-catalogo dell’artista:
Tolerance, di Chris Mars, Billy Shire Fine Arts, 2008, telato con sovraccoperta lucida, formato in quarto, 160 pagine a colori.
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