Nel folklore italiano figurano esseri impressionanti come le streghe e gli orchi, raramente le fate ed i folletti. Difficile distinguere o identificare, a parte il “monaciello” napoletano e pochi altri casi. Tra i motivi c’è chiaramente una componente legata alla conformazione territoriale e climatica della penisola, dove le selve e gli stagni sono sì presenti ma non così vicini ai centri abitati e non così oscuri e freddi. E poi in Italia c’è troppo sole per le fate. Attraversando l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda ci si imbatte in paesi circondati da una campagna boschereccia e piovosa, che ha fatto proliferare leggende su creature selvatiche ben suddivise in classi che hanno la pretesa di essere scientifiche, quasi le avesse stabilite Linneo; Elfi, Nani, Coboldi, Goblins, Trolls ( e fin qui qualcosa l’abbiamo sentita dire ), Pookies, Banshees, Leprechauns, Cluricauns, Firdarrigs, Duergars, Pixies, Bogles, e via catalogando l’impossibile.
A noi Italiani ogni tanto, nel corso del tempo, era stata suggerita la presenza di queste entità dalle traduzioni di alcune celebri opere letterarie e teatrali ( Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, La regina delle fate di Spencer, i romanzi di Tolkien ) ma il nostro immaginario in proposito restava confuso, e forse non trovavamo neanche interessante l’argomento. Finché, nel 1979, non apparve un libro con un titolo netto e semplice da ricordare, Fate, che colpì tutti coloro che lo sfogliarono. Si trattava di una strenna natalizia, che doveva piazzare il secondo colpo di una serie inaugurata l’anno precedente dallo stesso editore, Rizzoli, quando aveva dato alle stampe Gnomi, un delizioso volume dell’artista olandese Rien Poortvliet, che aveva ricevuto un certo consenso. Le immagini però, per quanto piacevoli e ben fatte, rispettavano il cliché consueto, con i personaggi tutti uguali, folte barbe bianche e cappucci rossi. In Fate invece stupiva la varietà delle popolazioni del sottobosco nonché la fantasia con cui gli esseri venivano rappresentati estremamente diversi, dal bellissimo all’orribile; più orribili che bellissimi per la verità, in quanto il titolo italiano era la traduzione letterale dell’inglese “faeries”, termine con cui non si indicano le figure femminili luminose e turchine evocate da Carlo Collodi e Carlo Chiostri, piuttosto tutte quelle creature minuscole e dispettose a cui noi Italiani diamo il nome generico di folletti. Gli artefici dell’opera, testi e soprattutto disegni, erano due illustratori inglesi: il primo è l’ormai celeberrimo Brian Froud e l’altro il suo amico Alan Lee.
Cosa rese così attraenti agli occhi di tutto il mondo i personaggi di uno specifico folklore?
Froud lavorava con grande sensibilità, conferendo alle creature stereotipe ed ormai sbiadite della tradizione un energico guizzo vitale attraverso l’invenzione di muscoli facciali deformabili ed estendibili all’infinito, in grado di esaltare tutte le espressioni. E così i loro volti si mostrano scontrosi, furiosi, maligni, furbeschi, ridanciani, maliziosi, capaci di smorfie impossibili. Il tutto appare modernissimo, ma in realtà paga tributo ad almeno due massimi illustratori del periodo liberty, Arthur Rackham ed Edmund Dulac, ed in seconda battuta ai pittori rinascimentali delle Fiandre, in particolare Bosch, Brugel e Grunewald, e le loro rispettive opere Il trittico delle delizie, La caduta degli angeli ribelli, Le tentazioni di sant’Antonio. Gli esagerati stiramenti delle figure hanno anche essi un precedente illustre nella pratica dell’anamorfosi, attraverso la quale nella pittura manierista e barocca si creavano affascinanti giochi ottici. Froud si serve di questi trucchi che spiazzano l’osservatore e lo invitano a capovolgere il libro, guardarlo di sbieco, fermarsi ad osservare un tronco, una roccia, una macchia per scoprire che c’è una realtà visibile solo con l’occhio attento ed esperto di chi già sa. Lo spettatore viene dunque coinvolto negli scherzi dispettosi dei poltergeist ed il suo ruolo è quello ordinare il disordine; si tratta comunque di un caos allegro e molto simpatico, solo raramente venato di accezioni sconfinanti nella vera paura. Dal punto di vista tecnico Froud usa praticamente ogni mezzo a disposizione, prevalentemente tempere ed acrilici, ma anche aerografo, inchiostri, pastelli, gessetti e molta matita. Restano memorabili alcuni disegni eseguiti di getto, su pezzi di carta rimediati con tanto di margini strappati, poi fatti confluire nelle pubblicazioni. A completare il campionario di Fate, alla fine del libro, al posto delle attese biografie vennero inserite delle foto, in cui si possono vedere le apparizioni dei folletti mentre spiano i due artisti nel bosco, ed una dichiarazione degli stessi due che si tratta di materiale originale. L’operazione era molto divertente, con le foto suggestivamente virate in seppia, e faceva il verso ad un celebre episodio della storia della fotografia, noto come “le fate di Cottingley”; nel 1917 due ragazzine, abitanti nel piccolo villaggio inglese, si ritrassero inserendo nell’inquadratura fotografica delle sagomine di cartone con l’effigie di esseri alati e le spacciarono per vere. Venne coinvolto nel caso perfino Sir Arthur Conan Doyle ( sì, proprio il padre del più grande detective di tutti i tempi), che scrisse un articolo in proposito, restando in primis scettico e convincendosi poi dell’autenticità del fenomeno. Oggi quelle foto appaiono quantomeno ingenue ma conservano il loro fascino di mistero-burla retrò, e non potevano lasciare indifferente un appassionato come Froud.
Il potenziale delle creature di Froud passa in breve tempo dalla carta stampata alla celluloide cinematografica e da questo punto l’arte di Froud è una formula, può venir ripetuta dal suo creatore innumerevoli volte, ed il successo sarà sempre assicurato; un artista vero però non si ferma nella ricerca e quantomeno sperimenta delle varianti. Così ecco Goblins, dove i folletti animano un sorprendente pop-up, poche pagine magistralmente studiate per crescere ed allargarsi davanti agli occhi di chi legge, e poi è la volta dell’originalissimo Lady Cottington’s Pressed Fairy Book, in cui si narra di una ragazzina vittoriana che sosteneva di catturare le fate in mezzo alle pagine del suo diario a mo’ di zanzare. Il libro è concepito come la riproduzione anastatica dello stesso diario, con tanto di copertina bombata e carta ingiallita, presenta tutti gli appunti di lady Angelica Cottington e riporta “l’impronta psichica” lasciata dai folletti spiaccicati. Froud stavolta disegna le sue creature come se fossero appiccicate contro un vetro, con espressioni di panico, anatomicamente scomposte e circondate da macchie di liquidi organici. Al libro è allegato un gadget, una fatina verde, ovviamente schiacciata, stampata su acetato trasparente da attaccare al parabrezza dell’automobile. La trovata trasporta il soggetto fata dall’ambientazione fin de siecle del libro alla moderna quotidianità, suggerendo una delle possibili cause dell’estinzione del piccolo popolo. Altrettanto pieno di inventiva quattro anni dopo appare Bad Faeries/Good Faeries, libro doubleface, a partire dal titolo. Metà della pubblicazione mostra le fate buone, l’altra metà, stampata sottosopra, quelle cattive; non esiste una parte che domini l’altra, dunque l’opera può essere letta dritta o capovolta, senza sapere quale sia il verso vero. Ma la novità non si esaurisce qui. Al centro del volume c’è una terra di mezzo – dieci pagine – dove esistono creature ibride, e queste rivelano due fecce diverse, una benigna ed una malvagia, a seconda che il libro venga letto da un lato o dall’altro! Tra le creature legate al principio del Bene figurano alcuni dei dipinti più lirici dell’artista, delle fate evanescenti costituite solo di luce, pennellate di colori accesi su fondi cupi, quasi un’esplosione pirotecnica, dimostrazione della continua evoluzione di Froud, che pure resta legato ai suoi temi ed ai suoi paesaggi, i quali, con i loro suggestivi squarci tra sublime e pittoresco, restano la romantica fonte di ispirazione a cui continua poeticamente ad attingere.
Si riporta qui di seguito una breve bibliografia con le opere di Froud che riteniamo più interessanti; i due libri con titolo in italiano sono gli unici attualmente tradotti nel nostro paese:
Alexander Theroux e Brian Froud, Master snickup’s cloak, 1979, Dragon’s world/Paper Tiger, 1979, cartonato in ottavo con sovraccoperta.
Brian Froud e Alan Lee, Fate, 1979, Rizzoli, cartonato in similpelle con sovrimpressioni in oro e sovraccoperta, in quarto.
Brian Froud, Goblins, 1983, MacMilliam Publishing Company (Blackie and Son Ltd), cartonato in ottavo, pop-up.
Brian Froud e Terry Jones, Tutti i folletti di Labyrinth, Rizzoli, 1986, cartonato con sovraccoperta, in quarto.
Brian Froud and Terry Jones, Lady Cottington’s Pressed Fairy Book, Turner Publishing (Pavlion Books), 1994, edizione cartonata in quarto, con imbottitura.
Brian Froud, Good Faeries/Bad Faeries, 1998, Simon and Schuster Edition (Pavilion Books), brossurato con alette, in quarto.
Biografia:
Brian Froud è nato a Winchester nel 1947 ed è cresciuto tra la contea dell’ Hampshire e quella del Kent. Studia prima al College of Art di Maidstone e poi, nel 1971, consegue il diploma di graphic designer. Lavora a Londra come grafico ed illustratore, rivelandosi particolarmente adatto ai libri per l’infanzia. Attratto dal folklore inglese e dalla vita all’aria aperta si è trasferisce nel Devon, paese ancora rurale, dove trova l’ambiente perfetto per vivere e prendere ispirazione per le sue opere. Nel 1978 raggiunge una fama inaspettata con Faeries, libro realizzato a quattro mani con l’amico Alan Lee (talentuoso disegnatore a cui si deve, tra l’altro, la scenografia della trilogia filmica del Signore degli anelli, premiata con l’Oscar nel secondo episodio); l’opera vende 250.000 copie, viene tradotta in più lingue e si conferma un successo mondiale ristampato innumerevoli volte, perfino nell’insospettabile mercato italiano, dove negli ultimi anni si è anche diffusa una tendenza al fantasy attraverso piccole sculture, ciondoli e tatuaggi riproducenti proprio le creature di Froud.
Sempre nel 1978 Froud lavora come visual designer nel film The Dark Crystal, opera originalissima, interpreta solo da marionette e premiata ad Avoriaz come migliore film fantasy; il risultato è dovuto non solo alla fantasia di Froud ma anche alla caparbietà del regista Jim Henson, già creatore dei pupazzi del celebre Muppets Show. Lo sforzo per la realizzazione del film è notevole ed il riscontro di pubblico minore rispetto alle aspettative ma nel 1986, ancora in coppia con Henson, Froud realizza Labyrinth, che si avvale nel cast di David Bowie e dell’allora giovanissima Jennifer Connelly. Froud inventa i personaggi e le scenografie e questa volta il film, apparentemente per bambini ma in realtà metafora adolescenziale con molte chiavi interpretative, riscuote il meritato successo. In contemporanea viene pubblicato The Goblin Companion, con gli studi della visualizzazione grafica dei folletti. Il libro viene anche tradotto in Italia col titolo Tutti i folletti di Labyrinth. Nel 1995 l’artista vince due prestigiosi premi, l’ASFA ( “Best interior illustration award” ) e lo “Hugo avard for best original work”.
Brian Froud è sposato con Wendy, artista dedita alla scultura polimaterica, che realizza pupazzi in resina su armature flessibili o snodate, vestiti con abiti in materiali misti, ispirati ai personaggi del marito.
I coniugi Froud vivono attualmente in una dimora quattrocentesca nel parco nazionale del Dartmoor (Devon), ed hanno come vicino di casa il loro amico di sempre e collega Alan Lee.
Apparso su: Kustom World n.9 del 2012
01. Mary Dell'agnese
Tutte le fate e gli esseri del bosco sono autentici,meravigliosi!!!!! Grazie infinite per rendere possibile i sogni
02. Giorgio Perlini
E allora ringraziamo insieme Froud, io ho poco merito in tutto ciò…