Alberto Pascale lavora le sue fotografie come un alchimista manipolerebbe un minerale metallico. Ed infatti trattasi di “opere al nero” concepite all’interno di un banco ottico/athanor, in cui la scusa di un raggio di luce flebile dà inizio alle trasmutazioni operate dal fuoco vero che è dentro di lui. E’ ben conservato come la brace sotto le ceneri di lavori e routine eppure lo si può scorgere guizzare a sorpresa nelle iridi celesti. Sfavilla durante le discussioni sui temi fotografici, si ravviva durante le peregrinazioni, cresce nella ricerca soffiato da mantici invisibili, avvampa quando il fotografo sente che sta per raggiungere il quid. Ciò può avvenire in luoghi dalle distanze siderali ma anche in salotto: una irrequietezza di fondo è base di quella poetica artistica sperimentale che non sa bene quale sarà il risultato ma sa che saprà riconoscere l’hic et nunc in cui piazzare il banco ottico-crogiolo. E così appaiono i luoghi dell’abbandono, antiche dimore di campagna e ospedali psichiatrici, poi i geli e le brine delle mattinate invernali più fredde, le sospensioni delle volute di fumo, i paesaggi ricavati nelle rughe dei volti, le insospettabili geometrie adamantine nascoste nei vegetali e rivelate da interventi drammatici che divengono storie, come se una foto potesse essere un film. E ancora le visioni urbane che evocano fantasmi attraverso errori ricercati di sfocatura e di mosso o l’inquietante serie di ritratti in cui metà immobile del volto del fotografo viene abbinata alle metà dinamiche dei visi altrui.
Il paradosso è che il fuoco di Pascale sembra ardere di più là dove c’è l’acqua. Questa è la costante del nucleo delle immagini in mostra, oceani madreperlacei, lagune nebbiose, sorgenti sprizzanti, pozze riflettenti. Certo si tratta di un elemento liquido modellato dall’alchimista e trasformato in sostanza magmatica. La prima operazione del lungo processo creativo avviene nel momento dell’imprigionamento dell’immagine nel crogiolo ottico, poi a casa, nell’antro magico della camera oscura avverranno altre trasformazioni. Niente resta così come dal vero e non sarà mai possibile riprodurre un’immagine di Pascale, risulterebbe più facile scattare di nuovo la fotografia di un fatto di cronaca. Dopo aver operato basculaggi e decentramenti, dopo aver calibrato i diaframmi ed allungato i tempi di posa, dopo tutto questo ed altro ancora, la fiamma dell’artista si abbassa con la consapevolezza che tornerà a riattizzarsi nel buio del laboratorio. Nel segreto di un’oscurità che Pascale condivide volentieri e generosamente con gli amici si compie la seconda parte del processo alchemico. Le immagini devono materializzarsi in maniera artigianale seguendo una tradizione che, sebbene al passo con i tempi, non può abbandonare il valore della manualità, quella che rende ogni stampa un unicum, come fosse un dipinto. Anche in questa fase Pascale mostra grande originalità, sebbene traspaia l’ispirazione ai maestri americani, Edward Weston ed Ansel Adams davanti agli altri. Originalità perché le sue fotografie non appaiono impresse dalla luce, piuttosto forgiate come masse nere di una materia densa plasmata dal buio. Non per niente la camera di trasformazione è obscura, il bianco è solo nella carta, in quel supporto vergine finché l’artefice non avvia il processo di creazione/trasformazione spalmandovi sopra la misteriosa materia nera. E’ un lavoro di addizione, contrario a quello dello scultore che toglie il marmo in eccesso e simile a quello di un plasticatore che modelli la pece. I grigi divengono ancillari, sono i neri che contano. E il buio è un elemento che fa parte della poetica di Pascale quanto l’acqua. E’ ricercato negli spazi e nei tempi, negli scatti notturni, negli ambienti sotterranei, nelle ombre che diventano protagoniste rubando il posto ai legittimi proprietari tagliati fuori dalle inquadrature. Pascale ha deciso che la trasformazione alchemica da lui operata non giungerà all’oro. Ben più interessante concentrarsi sullo stadio della nigredo, magari estrapolando dal nero giusto un filo d’argento, quello dei sali di cristallo delle stampe. Diventa allora evidente che gli altri due elementi fondanti di questa ricerca sono il tempo ed il contrasto. Il tempo scorre nella ricerca del soggetto e continua a fluire non ostacolato nell’immagine in negativo, poi si conserva in sospensione fluida finché torna a riversarsi lentamente nello sviluppo e nella stampa, con esiti sorprendenti. Non solo perché la coppia buio-tempi lunghi è indivisibile, ma anche perché la pazienza dell’artefice-artigiano può esistere solo così. Il contrasto si dipana tra nitidezze e sfocature spesso invertite rispetto a quanto le regole raccomandano, tra la fissità di certi oggetti e le ondulazioni trasparenti di altri, tra gli spazi dove il nero dilaga ed i residui rarefatti del bianco. Contrasto grafico dunque, voluto anche nella scelta di carte da stampa dure, atte all’eliminazione di parte della gamma dei grigi, ma anche contrasto filosofico dove lo scuro è la materia ed il chiarore è il tentativo di evocare una forma. Il colore sarebbe un complemento inutile, anzi deleterio nel deviare l’attenzione da quelle acque incandescenti attraverso le quali la sperimentazione di Pascale raggiunge un’alta vetta poetica. Ma non credo si tratti del traguardo; conosco abbastanza bene l’artefice inquieto da saperlo in fermento per la nuova partenza, forse alla volta d’un ghiacciaio, forse negli spiragli d’un tombino giusto dietro casa: comunque là dove la visione è nuova ed il tizzone sotto le ceneri riprende ad avvampare.
Prefazione al catalogo della mostra In direzione ostinata e contraria, dal 18 Ottobre al 20 Novembre 2022, Galleria fotografica Paoletti, Bologna.
01. Ennio
quel bellissimo gioco di nero e bianco da’ a chi osserva l’amletico dubbio se sia frutto di irrequietezza, come dice bene il commentatore, odi serenita’ profonda dello spirito
02. Giorgio Perlini
Giusto. Conoscendo l’autore delle foto direi un po’ tutte e due le cose…