A metà degli anni Settanta del Secolo scorso (scritto così mi fa sentire un po’ vecchio ma tant’è) imparai che i fumetti non erano nati con le storie di Topolino degli anni Trenta e risalivano all’inizio del Novecento. Me lo insegnarono, decodificati da mio padre che più che seguire le mie passioni giocava sempre d’anticipo, esperti dai nomi misteriosi, almeno per me che avevo dieci anni: Ranieri Carano (mi sembrava ovvio che firmasse cognome e nome come a scuola, ma mio padre disse che Ranieri era il nome…), O.D.B (Chi era?… Mio padre mi spiegò che si chiamava Oreste Del Buono e quella firma era ciò che si dice “monogramma”), Claude Moliterni (secondo me andava bene così e invece mio padre sosteneva che in lettura dovevo accentarlo perché era francese), Sergio Trinchero (e qui sì che mi sembrava mancasse un accento finale ma mio padre disse che era italiano dunque si pronunciava come si scriveva). Grazie a questi signori difficili fin dalle firme e all’entusiasmo di papà arrivai a conoscere George McManus (Bringing up Father, meglio noto come Arcibaldo e Petronilla), Richard Outcault (Yellow Kid), Lyonel Feninger (Wee Willy) e soprattutto Winsor McCay (Little Nemo) alle cui tavole spettacolari Garzanti dedicò un librone grandioso e costosissimo (per fortuna agiva papà). Tutto bene, gli orizzonti artistici dei bambini medio borghesi italiani dei quali facevo inconsapevolmente parte andavano allargandosi per merito di una cultura di sinistra (ma per me la politica era invisibile, ero interessato solo a leggere fumetti) per la quale la rivista Linus sembrava essere un punto fermo.
Però da diversi anni le ricerche di una più moderna generazione di storici e critici dai nomi forse un po’ più semplici come Eleonora Brandigi, Alfredo Castelli e Thierry Smolderen, hanno spostato indietro la nascita del medium, piazzandola prima nel XIX secolo (Gustave Dorè con Storia della Santa Russia… ma come, quello della Divina Commedia faceva fumetti?!) e poi alla metà del XVIII, riconoscendone l’inglese William Hogarth (ma non era un pittore di noiosi ritratti di gentiluomini e damine?) come padre putativo. Non è una smentita degli studiosi precedenti, trattasi semmai di uno scavo più profondo, consentito dalla facilità di accesso a certe fonti, aperto dalla tecnologia e dal web. I meriti dei critici degli anni Settanta restano, in particolare la volontà di trattare il fumetto come un mezzo espressivo alla pari degli altri, dunque degno di filologia. Tra questi antenati pieni di sorprese (1) (e dei quali viene sempre ignorato Carl Maria Seyppel: gli interessati sono invitati a leggere l’articolo Il principe della mistificazione ironica presente in questo sito) figura un disegnatore svizzero di nome Rodolphe Topffer (1799-1846), tanto noto ed amato nel suo tempo da essere stato riprodotto e plagiato più volte già in vita. I suoi proto-fumetti risalgono agli anni Trenta dell’Ottocento e per quanto originalissimi risentono del fermento romantico di ribellione all’ordine costituito tipico dei creativi dell’epoca. Anzi, appaiono proprio come opere in cui attraverso un’ironia comprensibile a chiunque sappia leggere passa il conflitto tra cultura meccanicistica e indomito spirito di sperimentazione. Queste storielle, ovviamente senza ballons ma disegnate e sempre accoppiate ad una breve descrizione, non sono finalizzate ad una morale per ragazzi ma si propongono di far sorridere (più gli adulti che i bambini) criticando i sistemi precostituiti del sapere e del vivere. Sono eseguite da Topffer in fogli di formato orizzontale, quello che i Francesi chiamano a l’italienne e che anticipa la classica “striscia” del fumetto moderno. L’autore aveva anche inventato un processo di riproduzione chiamato “autografia” in cui gli originali venivano eseguiti con inchiostro grasso su carta trattata con amido. Ciò facilitava il decalco invertito sulla pietra litografica eliminando passaggi intermedi e modifiche del segno dovute a mani differenti. Inoltre non esiste la fase della trasformazione del testo vergato a mano in caratteri tipografici, e si conserva la calligrafia propria dell’artista. Con questi libri “a pupazzetti” l’autore, che si vede preclusa la carriera di pittore a causa di un non ben identificato problema di vista (2), ottiene successo e ha modo di rivendicare le sue tesi. Tali tesi riguardano in particolare il tema dell’educazione dei giovani. Topffer è infatti direttore di un collegio ginevrino in cui si insegna l’amore per la natura, la sfida alla stessa, l’attraversamento del bosco ed il valico delle montagne come fasi di crescita e ricerca di una spiritualità interiore che proprio dall’ambiente esterno viene stimolata. Con cadenza semestrale i suoi allievi sono condotti alla ricerca dell’avventura. Certo tutto ciò fa pensare alla diffusione del Grand Tour ma non si tratta di viaggi in cui si aspira alla comodità, bensì a temprare il carattere attraverso difficoltà di ogni tipo. Ed è proprio la proposta di una nuova pedagogia che emerge dalle pagine di Histoire de Mr. Crepin, una delle sue storie più divertenti. Messieur Crepin, buffo borghese dal naso prominente, nuca piccola con zazzera sporgente, gambe corte, ha una famiglia composta dalla moglie ed un numerosissimo gruppo di figlioli scatenati. E’ in cerca di un istituto a cui affidare l’educazione dell’indisciplinata prole che la consorte non riesce a correggere, motivo per cui, come di moda all’epoca, si abbandona a svenimento. Si piazzano i figlioli in un collegio ed il direttore vanta grandi progressi nella condotta ma nella realtà dei fatti questi ragazzi appaiono più selvaggi di prima. Allora si opta per la scelta di un precettore domestico, meglio due, ma solo con l’allontanamento di uno le cose cominciano a funzionare. Però funzionano in modo meccanico: da branco scalmanato i ragazzi si trasformano in esecutori perfetti, cominciano a muoversi all’unisono come soldati indottrinati, svolgono quanto loro richiesto in modo robotico divenendo parodia di una società vuota, binomio di regole di galateo e regole di cultura tecnica. Fin quando l’incontro con una autorità particolarmente odiosa, nella fattispecie la “guardia campestre”, non fa riemergere in loro lo spirito anarchico primigenio ed il povero Messieur Crepin si ritrova recapitato un lungo elenco di rimostranze cittadine per i danni commessi dai figli. Dopo varie vicissitudini giunge sulla scena tale messieur Cranoise (!) il frenologo che è convinto di poter capire tutto analizzando la forma della testa dei componenti della famiglia. Crepin (che è chiaramente la voce del suo autore) dichiara senza mezzi termini che “la frenologia è una scienza immorale e materialista” e getta dalla finestra tutti i teschi usati da Cranoise a scopo dimostrativo: la sequenza è la più divertente del libro, i figli raccattano i crani e li usano, impugnandoli per bene con le dita nelle cavità orbitali, per giocare a bowling. Poi li scagliano contro il frenologo, che sarà costretto a farli ricucire da un artigiano che aggiusta le pentole di coccio. Tornerà ad usarli dando dimostrazioni pubbliche finché la presunta scienza della frenologia non attecchirà anche nelle campagne, quando ogni contadino inizierà a far osservare la conformazione della testa dell’erede per capire se ha un genio in famiglia. Segue la storia dei vari precettori che muoiono tutti colpiti da un destino che si fa beffa delle loro convinzioni. La numerosa prole di Crepin troverà equilibrio e maturità semplicemente crescendo, lasciando che le cose si sviluppino in modo naturale. L’albo si conclude con un pranzo di famiglia in cui si vede un composto brindisi diretto da Crepin soddisfatto, affiancato dalla sua signora (che non ha più motivi per svenire). Dunque Topffer critica i sistemi educativi e la scienza della sua epoca, e i suoi discoli, a differenza della schiatta di monelli che arriverà più tardi a caratterizzare le storielle moraleggianti per bambini (3), non sono sottoposti a punizioni esemplari, né si ritrovano moniti da imparare a memoria. E questo Topffer lo esprime attraverso un’opera “a fumetti”, cioè quel medium che ancora negli anni Settanta era tanto vituperato poiché ritenuto dall’opinione pubblica diseducativo e di scarso livello artistico (ed ecco che dovevano intervenire i critici citati in apertura). E allora facciamo una riflessione proprio sul livello artistico (ma forse bisognerebbe dire sull’estetica) di Topffer; i suoi piccoli personaggi, eseguiti velocemente con un segno imperfetto, rispondono ad un bisogno di uscire dall’accademia per riscoprire il primitivismo. Lo scarabocchio che avvicina il disegnatore al bambino è pressoché immediato e decisamente efficace, così come la scrittura di proprio pugno. L’ironia, in certi casi vera e propria comicità, passa attraverso quel segno fluido ed arricciato al tempo stesso, che non vuole correzioni neanche dove risulta “sbagliato”. Tutto è vitale e pieno di movimento, al contrario dell’arte ufficiale in cui si paralizzano i soggetti mortificandoli. Per capire questo concetto bisogna osservare la linea di contorno delle vignette di Topffer: più esse narrano il disordine e più questa linea si contorce. Il rovello come alternativa libera ed espressiva all’imposizione monotona della linea retta. E dovremmo accorgerci che qualcosa di analogo accade anche alle ombre. Ottenute con un tratteggio continuo e fitto esse non corrispondono ai legittimi proprietari ma si divincolano separandosi e moltiplicandosi fino a prendere l’aspetto di piante, in particolare fichi d’india, in espansione disordinata. E’ lo sviluppo imprevedibile della natura che fornisce l’ispirazione. E così chiudo con un particolare che è quello che mi ha fatto optare per l’acquisto di questa insolita edizione di Mr. Crepin, con copertina meno attraente di quella classica rossa con disegni in oro; sui tagli dorati del libro appare una scritta punzonata con il titolo dell’opera e soprattutto spiccano dei disegni incisi, rappresentanti pupazzetti infantili. Uno sembra un millepiedi, gli altri creature antropomorfe con esili zampette di ragno. Non avendo mai visto altre copie di questa edizione non mi è dato sapere se tali decorazioni siano invenzione dell’autore, scelta editoriale o interventi personali del primo possessore del volume: comunque sia esse corrispondono in maniera esemplare allo spirito dell’opera e alle linee volutamente tremolanti di Topffer.
Histoire de Mr. Crepin, Topffer, , 88 pagine numerate a mano e stampate solo al recto, Imp. Dufrenoy, 49, rue du Montparnasse, Paris (disegnata nel 1837, non è riportato l’anno di stampa), formato orizzontale, risguardi in carta marmorizzata tirata al pettine, tagli dorati e stampigliati a mano, copertina rigida con spigoli smussi e dorso in pelle.
Le altre opere comiche di Topffer sono:
Histoire de Mr. Jabot , 1835 (disegnata nel 1831)
Les Amours de Monsieur Vieux Bois , 1839 (disegnata nel 1827)
Histoire de Monsieur Pencil , 1840 (disegnata nel 1931)
Le docteur Festus , 1840 (disegnata nel 1829)
Histoire de Monsierur Cryptogame, 1845 (disegnata nel 1830)
Degno di nota è il cofanetto pubblicato da Garzanti nel 1973 che raccoglie cinque di questi volumi. Con insolita operazione editoriale essi vennero stampati in formati differenti ed inseriti in un contenitore scalettato in cui entravano ad incastro. La bizzarria di questa scelta è dovuta al rispetto dei formati dei quaderni d’origine e rivela la grande cura con cui venne realizzato il tutto (senza peraltro fornire spiegazioni al lettore). Inoltre i libri vennero realizzati fotografando i disegni originali di Topffer nella loro forma primigenia (sono conservati al Museo d’Arte e Storia di Ginevra) e dunque differiscono da tutti i volumi a stampa successivi, ottenuti sempre a partire dalle “autografie” nelle quali l’artista dovette ridisegnare le sue pagine su carta appositamente trattata con colla d’amido e con l’occasione conferì alle storie un aspetto più dettagliato.
Note:
(1) Li cito in nota per non appesantire un testo che mi sembra già troppo carico di nomi e me ne scuso. Bisogna ricordare, in ordine di apparizione, almeno questi: Thomas Rowlandson, George Cruikshank, (entrambi collocati tra Hogarth e Topffer), poi i francesi Cham (Charles Amédée de Noé) e Grandville, poi ancora Wilhelm Busch, Caran d’Ache ed infine Sem (Georges Goursat).
(2) Alcuni hanno ipotizzato il daltonismo; però certe affermazioni di Topffer relative ai colori farebbero pensare ad altro. Probabilmente si trattava di una inficiante miopia.
(3) Da Pierino Porcospino di Heinrich Hoffmann a Bibì e Bibò di Rudolph Dirks passando per Max e Moritz di Wilhelm Busch.
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