Il 21 Marzo del 1918 i fanti italiani con gli scarponi incancreniti dal fango ed il cuore lasciato tra le mura domestiche potevano cercare un po’ di buon umore tra le pagine del primo numero de La Tradotta – giornale settimanale della 3 Armata, la più celebre tra le cosiddette riviste di trincea. I disegnatori della redazione di quella rivista, diretta da Renato Simoni, sarebbero diventati tutti autori importanti e celebrati fino ai nostri giorni: Enrico Sacchetti, Umberto Brunelleschi e sopratutto l’allora sottotenente Antonio Rubino. Uno solo, sebbene produttivo e versatile, era destinato alla scomparsa dalla memoria. Si chiamava Giuseppe Mazzoni, era nato a Modena ed aveva frequentato il Regio Istituto di belle arti della città. Aveva un segno flessibile con cui realizzava storielle a quadretti sul tema, classico delle caserme di tutta l’Italia, dello stanamento dell’imboscato, con le rime di Renato Simoni sullo stile di quelle del Corriere dei Piccoli. Vi compariva sempre “il dottor Bertoldo Cucca/ch’ha di molto sale in zucca”, il quale escogitava sistemi ed inventava macchine per scovare i soldati lavativi. E fin qui tutto rientrava nella tradizione, ma Mazzoni disegnava anche vignette a tutta pagina fitte di soldati ed artiglierie, coloratissime, che presentano curiose analogie con le tavole di certi pre-comics americani come Yellow Kid. I disegnatori de La Tradotta non firmavano le loro tavole (ad eccezione, qualche volta, di Sacchetti) ma erano tutti riconoscibilissimi in quanto profondamente diversi nell’impostazione e nel gusto. Mazzoni rese il suo segno sempre più contorto negli anni successivi quando l’impegno artistico dovette assumere un aspetto ufficialmente serioso poichè convogliato in varie serie di cartoline propagandistiche (1). Venivano distribuite ai militari al fronte ed erano in franchigia, ovvero senza bisogno di affrancatura, così i soldati potevano far giungere loro notizie a casa e contemporaneamente diffondere immagini contro il denigrato nemico. Quando i disegni non si concentrano su questo aspetto allora esaltano il milite italiano con una sovrapposizione della sua figura a quella del martire religioso, o dell’angelo, o del Cristo. Emerge nell’artista, un po’ comandata ed un po’ spontanea, una tendenza ad un certo misticismo vocazionale. Questo aspetto è importante perché è la chiave per comprendere l’opera più bella e più sconosciuta di Mazzoni; una pubblicazione intitolata La leggenda di S. Pellegrino dell’Alpe del 1919. In verità la data non è presente nel colophon del libro ed è derivata da quella dell’introduzione. La tavola n.2 però, unica datata, riporta MCMXIV, dunque la sua esecuzione sarebbe avvenuta cinque anni prima della pubblicazione, la quale venne verosimilmente posticipata a causa dell’entrata in guerra dell’Italia. Dunque il libro è stato realizzato antecedentemente ad ogni altro lavoro mazzoniano ed appare come l’opera prima dell’artista. Trattasi di un piccolo albo in formato quasi quadrotto (cm 24 x 21) con copertina martellata e carta forte, composto essenzialmente da sedici tavole stampate in marrone scuro su avorio che narrano la vita di San Pellegrino accompagnate da didascalie. La presentazione, che non fa alcun cenno al disegnatore, consta di poche pagine ad opera di A.G. Bianchi (giornalista e collezionista d’arte) e G.B. (sicuramente Giulio Bertoni, il quale compare in terza di copertina come curatore di tutti i volumi dell’Editore Orlandini). La storia racconta di una coppia di Reali scozzesi che si rivolgono a Dio per avere una discendenza e Dio prontamente appare e risponde che arriverà un figlio che dovrà chiamarsi Pellegrino e diventerà cavaliere di Cristo. Il bambino nasce e mentre viene battezzato pronuncia la sua prima parola, “Amen”. Il re e la regina muoiono quando Pellegrino ha quindici anni ed il ragazzo rinuncia alla corona di Scozia in favore di una simbolica corona di spine ed intraprende un percorso di penitenza sull’esempio di altri martiri religiosi. Inizia così un viaggio pieno di pericoli fisici e spirituali verso i luoghi santi durante il quale la persona di Pellegrino si rivela proprio una “imitatio Christi”. A novantasette anni il sant’uomo termina le sue peregrinazioni in preghiera all’interno di un antico faggio cavo, nella località che porta il suo nome, vetta della Garfagnana, tra Modena e Lucca.
Mazzoni non è sicuramente il primo disegnatore a trattare soggetti derivati dalla tradizione religiosa ma al contrario di quanto avveniva in contesti catechistico-devozionali, stilisticamente limpidi e rassicuranti anche quando le tematiche mostrate sconfinavano nell’orrore (2), opta per restare personale fino all’estremo, probabilmente perché sa di trovarsi in piena sintonia con lo spirito del tema che deve illustrare. Dunque si cala al servizio di un soggetto difficile senza alcuna fatica, arrovellando un segno che scava nelle tavole cercando di farne uscire la complessa psicologia del Santo. I disegni sono matasse apparentemente eseguite senza mai staccare il pennino dal foglio (operazione impossibile, fosse solo per intingerlo ogni pochi secondi nel calamaio), nuvole temporalesche ottenute con un segno che varia di spessore ma continua a girare e girare, e scurire sempre più per rivelare che sotto quella scorza nodosa si cela qualcosa di prezioso. In barba ai dettami del Liberty imperante, che pure si serviva di linee curve, Mazzoni estremizza il curvilineo in un tortuoso ai limiti del leggibile, disinteressandosi completamente dell’eleganza e della commercialità. Rivendica le tendenze simboliste ottocentesche ma la sua poetica è scevra di malinconia. Inoltre non vi è niente di oscuro o malvagio. Inquietante sì, perché il demonio e le tentazioni sono comunque in agguato. Al passo con i tempi vi è il dinamismo di un segno che inizia come contorno e procede in qualità di chiaroscuro, dinamismo che dai cieli e dai mari va infilandosi nei corpi, nei fumi, nei drappi, nei vessilli, negli alberi, perfino nelle architetture. Richiedono tempo di osservazione queste illustrazioni: dove sono i protagonisti? Chi è il bene e chi il male? Dove finisce l’albero ed inizia la belva? Quel tempo che a volte cerchiamo di quantificare di fronte ad un’opera d’arte complessa: qual è la durata di un’opera d’arte? Con il cinema e la musica è più facile, il tempo è imposto, poi magari si può anche tornare a vedere o sentire. Ma un disegno? Ecco, le illustrazioni di Mazzoni vanno gustate con lentezza, con una visione veloce si coglie sì l’abilità dell’artista ma non si decifrano tutti i soggetti.
Tre anni dopo Mario Zampini concepirà un’opera simile dedicata a San Benedetto, L’Albo Benedettino (3), ingrandendo notevolmente il formato del libro ma lasciando praticamente intatto lo spirito dell’operazione. Ma Zampini, che perfino nella firma-monogramma sembra voler richiamare Mazzoni, ha un segno che a volte abbandona la curva per divenire retto e spezzato ed uno spirito che attinge anche al macabro. Nelle sue tavole, altrettanto aggrovigliate, l’osservatore attento può scovare figure nascoste appena accennate o immagini subliminali. In Mazzoni questo non succede perché i demoni sono in bella vista per l’osservatore paziente. Tutto è esplicitato, se emerge qualcosa di altro è frutto dell’inconscio del lettore solleticato dalle serpentine grafiche. Il messaggio vero di questi disegni è che al centro del divino si arriva passando attraverso una corteccia aspra che è sofferenza e ritorno apparentemente incessante alla stessa. Credo che anche la grande guerra sia stata affrontata dall’artista con questo spirito.
Passato il primo conflitto mondiale la già scarsa notorietà di Mazzoni svanì del tutto, solo L’illustrazione Italiana continuò ad occuparsi del suo lavoro. A poco valsero i dipinti a tema sacro e la decorazione pittorica del santuario di Fiorano Modenese, tutti centrati sui martiri e su Gesù. Probabilmente l’artista, preso dalla religiosità del lavoro, non si interessò mai alla costruzione di un’immagine pubblica. A conferma della sua sincera vena mistica.
(1) Due di queste serie, denominate A e B, costituite da dodici soggetti ciascuna accompagnati da didascalie patriottiche che descrivono l’Impero austro-ungarico come demoniaco, sono ancora realizzate per la Terza Armata. Vennero però adattate anche per altre armate, dunque sul retro possono riportare diciture differenti. Vi è una ulteriore serie, questa volta a colori e di sette soggetti, dedicata agli “Stendardi di gloria”. Esistono poi altri soggetti sciolti non specificati e senza numerazione ma comunque collegati da tematica bellica e medesima impostazione grafica. Le ristampe delle prime due serie monocromatiche variano di colore dal marrone al verde.
(2) Il più celebre esponente di questa linea grafica preconciliare è stato Gian Battista Conti, illustratore di quasi tutte le pubblicazioni della casa editrice “Cultura Religiosa Popolare” attivissima negli anni Trenta e ben raccontata da Antonio Faeti nel suo testo seminale “Guardare le figure”.
(3) vedi l’articolo dedicato all’opera di Mario Zampini Cercando tra i segni, nella medesima sezione di questo sito.
La leggenda di S.Pellegrino dell’Alpe, illustrazioni di Giuseppe Mazzoni, brossurato oblungo in quarto con copertina martellata, Editore Orlandini di Modena, stampa “la Zincografica” di Milano, 1919.
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