Ci sono libri che funzionano come spartiacque, a volte anche senza l’intenzione dichiarata dei loro autori, libri che si pongono come un “da qui in avanti” decretato da un’ unanimità costituita da lettori appassionati ed autori successivamente ritrovatisi sulla scia. A volte sono libri sorpresa dall’effetto dirompente, altre libri attesi con trepidazione. Quello di cui parleremo appartiene ad una categoria intermedia, era cioè un libro prevedibile conoscendo l’autore ma niente affatto scontato nell’effetto sul grosso pubblico. Ormai il libro è un classico, e questo articolo poteva anche essere piazzato nella sezione “grammatura pesante” del sito; è solo per la data la sua realizzazione, relativamente recente, che si è pensato di collocarlo nella sezione “grammatura leggera”.
Burne Hogarth era una professore di Storia dell’Arte della Work Progress Administration, diventato poi fondatore della School of Visual Arts di New York, istituto in cui si sarebbero formati molti celebri disegnatori seguendo proprio gli insegnamenti sia storico critici sia pratici del maestro. Iniziò a disegnare Tarzan preceduto da un disegnatore stimatissimo, Harold Foster, uno dei massimi rappresentanti del fumetto mondiale, a sua volta giunto dopo che Allen St. John aveva realizzato le celebri copertine dei romanzi dell’eroe ed anche alcune illustrazioni in bianco e nero. Eredità del genere sono sempre difficili da reggere, nel confronto si viene automaticamente sconfitti, potremmo fare una lunga serie di esempi. Hogarth scelse la strada impervia dell’essere se stesso senza cercare mimesi, anzi puntando proprio sulle diversità. Consapevole del suo talento grafico diede a Tarzan un aspetto statuario ellenistico (emblematico è il ritratto con la pelle del gorilla in testa, citazione di Ercole coperto col leone di Nemea), decisamente mascolino, lontano dal prototipo fosteriano efebico, col caschetto nero composto ed un volto che avrebbe dovuto richiamare la fisionomia di Rodolfo Valentino ma finiva per assomigliare a Louise Brooks. Inoltre capì bene e sfruttò le potenzialità di quel mezzo, il fumetto, che il suo predecessore usava a mo’ di illustrazione, con immagini statiche e poco sequenziali. Hogarth cercò la rappresentazione dell’energia cinetica che poteva sprigionarsi da un eroe in grado di volteggiare tra gli alberi come farebbe una scimmia, dotandolo però dell’eleganza d’una pantera. La continuità con Foster fu nel rifiuto del balloon come spazio della parola, preferendogli la classica didascalia. Conquistò i lettori disegnando i fumetti di Tarzan per quattordici anni, dal 1936 al 1950, concedendosi una pausa dal 1945 al 1947 per realizzare Drago, fumetto bellissimo ma poco commerciale, e per la verità anche poco ripubblicato, dove il segno del maestro raggiunge una sintesi perfetta per la logica narrativa(*). Nel 1948 partì la pubblicazione di una serie di sei manuali sull’anatomia artistica e relativo chiaroscuro, tradotti in molte lingue ed editi più volte in Italia. Quando nel 1972 Hogarth decise di riprendere l’eroe di Burroghs girarono subito le voci sul capolavoro annunciato ed i Francesi, per primi, aprirono le celebrazioni del maestro con esposizioni e conferenze.
Ciò che scaturì dal virtuosismo del maestro fu un volume “definitivo” che rinarra in una sintesi fedele la storia scritta da Burroghs, Tarzan delle scimmie, appunto, aggiungendovi i disegni. Stavolta però non si trattava di un fumetto ma di un racconto illustrato in cui il testo risulta piuttosto superfluo tanto è esplicita, grande e dettagliata l’immagine. Già, il maestro abbandona il mezzo prediletto in favore dell’illustrazione: o meglio, inventa un ibrido dove la sequenza delle figure è narrativa ed il disegno dinamico, senza onomatopee, conservando però le linee sdoppiate per la sensazione di movimento e ricorrendo alla sovrapposizione parziale dei disegni, quasi fossero fotogrammi di un film. Tutti i punti di forza della versione a fumetti venivano esaltati, ad eccezione dell’espressione tormentata dell’eroe, con gli occhi cerchiati di nero e quell’aria grifagna che erano comparsi negli episodi più recenti. Gli editori che si accaparrarono l’opera furono Watson-Guptill Publications per il mercato USA ed il solito Mondadori, che nel 1971 aveva già mandato nelle librerie Tarzan re della giungla, un grande volume a colori che raccoglieva un’ antologia delle avventure disegnate da Hogarth).
Il libro si sfoglia con la gioia negli occhi. L’avventura si riempie di colori insolitamente smaglianti e di linee troppo studiate per un soggetto “basso”, Michelangelo sembra sceso dai ponteggi del Giudizio Universale per dar corpo alle fantasie popolari. Hogarth disegna come un manierista, allunga, ripiega, inventa nuovi muscoli, contorce i corpi, li colloca lungo le diagonali delle vignette scandite con l’equilibrio della sezione aurea. Ne scaturisce una narrazione con figure in orizzontale, quasi sdraiate tanto si inclinano. Non esistono personaggi fermi; l’uomo è in continuo divenire, e anche l’eroe, solitamente in stato di perfezione divina, assume un aspetto belluino nei momenti più violenti. (Ed in questi frangenti risulta contraddittoria la castrazione che Hogarth, consapevole della destinazione “familiare” del personaggio, opera dipingendo ombre arrotondate laddove sarebbe più logica un’esposizione quantomeno realistica degli organi sessuali). Da quelle tavole emerge il tema centrale – fondamento anche del romanzo- della contrapposizione tra l’uomo e la natura, nelle sue accezioni di animali selvaggi ed ambiente inesplorato ed ostile. Nel primo caso lo scontro è con la ferocia, vinta dalla ragione, ed ecco ancora la citazione classica, Tarzan col pugnale come David con la fionda, tanto per restare sui soggetti michelangioleschi. Le belve sono caratterizzate da un’anatomia idealizzata, in parte studiata dal vero ed in parte mutata da quella umana, per renderle più efficaci. Nel secondo caso, più interessante e continuamente riproposto con varianti, la giungla, topos del non conosciuto come potrebbe esserlo un altro pianeta, si rivela intricata e disordinata. Il disegno netto con cui Hogarth traccia le figure-uomini, diventa bitorzoluto, con i contorni doppi o tripli, magma primordiale da cui la ragione non è ancora fuoriuscita. Se in un certo senso questa giungla è il teatro in cui si muovono gli uomini-attori, per altri versi è la protagonista indiscussa dell’opera, il cui fascino è in gran parte dovuto al modo in cui viene dipinta, suscitando quel senso di meraviglia che nella cultura romantica viene definito “sublime”. Il vertice è raggiunto nelle due illustrazioni a piena pagina, l’una col chiaro di luna che mostra le belve in agguato vicino alla casetta sul margine della foresta, l’altra che rivela il terrore di tutti gli esseri viventi sotto il temporale, forse la tavola più spettacolare del libro. (Che fantastico illustratore di The Lost World sarebbe stato Hogarth! I dinosauri e la foresta di Conan Doyle visualizzati da lui sarebbero entrati nella leggenda. Peccato, il romanzo, se si eccettua la sua prima apparizione a puntate sull’ “Associated Sunday Magazines”con le illustrazioni di Joseph Clement Call, attende ancora un disegnatore di rilievo per una degna edizione in volume). Hogarth, colto, intelligente e gran professionista, sa che quando si ha a che fare col fumetto d’avventura non può essere sufficiente l’essere bravi nel mostrare i personaggi; sono necessarie le scenografie, e queste non può trovarle nella pittura di Michelangelo, umanista estremo, disinteressato a tutto ciò che non riguardi strettamente l’essere umano. Così va a cercarsele altrove, scovando l’ispirazione all’altro capo del mondo, in una estesa peregrinazione spaziotemporale; l’artista fa infatti riferimento ai paesaggi delle Hukyo-e di Hokusai ed Hiroshige, e prima di inserirvi i personaggi tratteggiati secondo le deformazioni manieriste (vedi la posa di Tarzan nella citata tavola con il temporale, scimmiesca eppure derivata dalle figure allegoriche sulle tombe dei Medici nella sagrestia nuova di S.Lorenzo) li riporta dentro alla tradizione occidentale ammantandoli con un’apparenza di pittura romantica inglese e tedesca. Infine filtra il pastiche attraverso luci cinematografiche, ma non quelle piatte del già stantìo Tarzan interpretato da Weismuller, bensì quelle dell’innovativa produzione onirica di Roger Corman, piazzate per rendere drammatica la scena inondando i volti da un lato di rosso e dall’altro d’azzurro. In effetti, anche nell’uso del colore Hogarth dimostra l’assimilazione della lezione manierista: compaiono i rosa confetto vicini ai verdi pistacchio perfino negli abiti della ciurma del brigantino, e i gialli acidi accanto ai violetti nelle chiome degli alberi. Sembra che Hogarth abbia potuto vedere i colori della Sistina prima della famosa pulizia del 1987, alla luce della quale sono cambiati i libri su Michelangelo. Tarzan era sempre stato pubblicato con tinte piatte male assortite, non scelte dall’autore. Il problema di una gamma cromatica che rispettasse il disegno era quasi completamente ignorato, l’alternativa si poneva solo come bianco e nero. E questa seconda scelta sarebbe stata quella giusta per godere appieno della bellezza delle figure ma per ragioni commerciali non era quasi mai contemplata. Il precedente volume Tarzan re della giungla era stato realizzato partendo dall’edizione canadese, con colori ancora peggiori della già scadente versione per il mercato americano. Rispetto al Tarzan apparso sui periodici, in Tarzan delle scimmie l’avventura si connota come “dipinta col pennello”, non solo disegnata col pennino. Per i lettori la certezza fu, all’uscita di quel libro, che dopo Little Nemo, Flash Gordon e Prince Valiant, era finalmente giunto un altro classico nella storia del fumetto avventuroso. Ma ‘sta volta l’opera valicava i confini del fumetto, non solo per l’impostazione del libro ma per le dichiarate citazioni “alte” dell’autore. Hogarth era la dimostrazione, in un’epoca in cui si accendeva la querelle sul valore artistico dei fumetti, che non solo si poteva fare vera arte anche con la letteratura disegnata ma paradossalmente qualcuno riusciva nell’impresa illustrando uno scrittore da sempre considerato “minore” come Burroghs. Un’altra considerazione è doverosa a questo punto: nell’epoca della pop-art e delle sue ripetute citazioni vignettistiche il fumetto, ritenuto intrattenimento pop, entrava nell’arte con le forme più classiche che si potessero immaginare (**).
Per fare le pulci a chi non ne ha bisogno si potrebbe criticare una scarsa conoscenza meccanica dell’artista (si veda l’impossibile saliscendi della porta della capanna) ma si tratta veramente di pignolerie invisibili nello sviluppo generale dell’opera. Piuttosto, questo sì che risulta antipatico nella lettura, per l’edizione italiana venne scelto un orribile carattere delle didascalie, impersonale fino all’estremo, mentre nella versione americana era elegante e ben integrato coi disegni, dovuto alla mano dello stesso artista. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe per un pezzo di storia del disegno come questo, il libro è reperibile ovunque, dalle fumetterie di seconda mano fino ai mercati on-line, dove lo si può acquistare anche con soli cinque euro! Venne infatti stampato, data la popolarità dell’autore e del “suo” personaggio, in gran numero di copie, ed anche ben distribuito: ricordo di averlo visto esposto in molte librerie anche anni dopo la pubblicazione, nonché di averlo notato negli scaffali a casa di parecchie persone non necessariamente appassionate di nuvolette.
Tre anni dopo uno strano personaggio chiamato Arzack, strano al punto tale da cambiare di volta in volta anche il nome (Arzak, Harzak) sarebbe tornato ad urlare che il fumetto è arte. Ma l’avrebbe fatto in modo tutt’altro che classico.
Edgar Rice Burroghs, Tarzan delle scimmie, Mondadori, 1973, formato in 4°, copertina tutta tela ocra con stampa a secco del titolo in verde, sovraccoperta a colori. Adattato ed illustrato da Burne Hogarth. Inserito nella linea “ Varia Grandi Opere”. Ristampato nel 1982 con copertina cartonata lucida a colori.
Prima edizione assoluta: Tarzan of the Apes, Watson-Guptill Publications, New York, 1972.
(*) L’influenza di Drago sull’opera di Roberto Raviola, in arte Magnus, è tale che alcuni soggetti, decontestualizzati, potrebbero sembrare estratti da Le 110 pillole, o Le femmine incantate. Ma i disegnatori ispirati da Hogart sono moltissimi, si pensi a quanto l’intreccio delle ragnatele di Spiderman creato da Todd McFarlane derivi dal viluppo delle radici della giungla di Hogarth, e quante vignette dei supereroi siano rifatte sopra ai disegni dei sempreverdi manuali anatomici del maestro.
(**) Per ulteriori osservazioni sul rapporto tra fumetto e pop-art si può leggere l’articolo Jack-King of pop-Kirby nella medesima sezione del sito.
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