Mi è spesso capitato di scrivere con entusiasmo sui libri illustrati del periodo della mia infanzia. L’ho sempre fatto prendendo in esame lavori concepiti interamente all’epoca, dunque non opere di fama consolidata. Il motivo di questa scelta è costituito dal fatto che i romanzi classici apparivano in quegli anni come “intoccabili”. Pinter e Thole, totalmente assorbiti dal lavoro sulle copertine impiegavano solo saltuariamente il loro talento su tavole interne; le giovani promesse Toppi e Battaglia trovarono presto più congeniale il medium del fumetto a quello dell’illustrazione; le vecchie glorie come Bioletto e Maraja continuavano ad infilare lavori tecnicamente ineccepibili ma avevano perso lo smalto d’un tempo ed erano stilisticamente superati; certi outsider come Galloni e Nidasio cercavano a fatica di aprirsi un varco in mezzo ad una situazione stagnante arenata su di un classicismo monotono e tristemente rassicurante che sembrava bandire ogni tentativo di originalità. Lo splendore raggiunto nei primi vent’anni del Novecento, anche in Italia, anzi, più in Italia che in altri paesi, costituiva una chimera, e comunque l’interesse verso la materia non era così alto come oggi. Gli editori, principalmente quelli non troppo forti, sembravano ricercare l’appiattimento timorosi di immagini che potessero disturbare i giovani lettori e soprattutto i loro genitori. Così una pletora di illustratori quasi indistinguibili si travasò dagli anni Cinquanta al ventennio successivo. E c’era ancora chi, come Mursia, continuava a pubblicare Verne con le immagini di fine Ottocento di Riou, però virate con colori pop per giustificare l’anacronismo. Indicativa la scelta di scavalcare ogni possibile contatto con la destrutturazione operata dalle avanguardie per confluire direttamente nel linguaggio artistico più facile e modaiolo senza rinunciare all’impianto figurativo classico. Un compromesso ruffiano insomma. Se i romanzi classici costituivano una materia sacra che non poteva subire contaminazioni grafiche, se ne poteva però perpetrare scempio testuale, adattandoli, tagliandoli e censurandoli. Ma con le figure no, non era accettabile portare contributi che non fossero di stampo realista e di maniera, dunque slavato. In questa massa risultavano ancora originali Mattioli e Fontana, che giungevano a risultati quasi antitetici. E poi c’erano De Gaspari e Renna, i quali erano invece molto simili: avevano abbracciato la strada della figurazione ortodossa consapevoli che proprio lì avrebbero raggiunto il risultato più alto. Entrambi lavorarono per Fabbri, editore al quale bisogna riconoscere una attenzione particolare per le versioni illustrate. Economicamente più forte di molti altri, e forse anche un po’ più coraggioso, riuscì ad arruolare certi artisti affermati come collaboratori alle Fiabe sonore, la famosissima serie con allegato il disco a 45 giri, un successo plurigenerazionale, ristampato non solo in vinile ma che seguì l’evoluzione tecnologica in formato audiocassetta e poi cd. Meno celebre ma altrettanto importante fu la serie intitolata I capolavori illustrati la cui prima stampa risale agli anni Sessanta. Comprende anche opere parzialmente già editate in formato minore ma riviste dagli stessi illustratori ed ampliate nel numero delle immagini. In certi casi le nuove tavole si stendono su grandi pagine doppie con effetto decisamente spettacolare. De Gaspari e Renna spiccano per avere realizzato due veri capolavori prestandosi l’uno a Moby Dick (per la terza volta) e l’altro a Viaggio al centro della terra. Che due testi così differenti siano inseriti nella stessa collana rientra nella visione dell’epoca, in cui il capolavoro di Melville era spacciato come letteratura per ragazzi, ed in effetti, così sforbiciato, lo leggemmo convinti che Achab a caccia della balena non fosse tanto distante da Sandokan a caccia della tigre. Tale considerazione è però poco rilevante sotto il profilo artistico relativo alle illustrazioni, superbe in entrambi i casi. In questa sede mi preme parlare dell’opera di Renna, il quale mi sembra un autore sottovalutato, che a causa della cecità di molti editori ricevette lavori minori e piuttosto tristi, romanzetti rosa e storielle sportive. Certo, si trovò tra le mani anche Dickens, Doyle, Remarque, eppure anche in tandem con gli scrittori celebri non salì alla ribalta. Solo con il libro di Verne si conquistò un posto importante nel gotha degli illustratori. In parte il merito va alle grandi dimensioni dell’edizione, le medesime degli albi delle “Fiabe sonore”, ma in questo caso la pubblicazione ha il dorso largo (trattasi di un volume di 130 pagine circa, come anche gli altri della medesima collana) e si presenta in veste cartonata. Le immagini si inseriscono principalmente in taglio orizzontale panoramico con effetto cinemascope, allora molto in voga. Più raramente l’incastro è verticale, a volte riservato ad inquadrature dei singoli protagonisti, altre ad elementi decorativi, pannelli floreali ispirati alla vegetazione incontaminata dei luoghi visitati, oppure derivati dalle rune della famosa pergamena trasformate in motivi da carta da parati. Permangono alcuni disegni scontornati, residuo di una tendenza creativa ormai superata e che negli anni Trenta aveva dato i risultati più belli. Non stonano affatto ma non raggiungono l’effetto potente delle illustrazioni con le inquadrature nette e strettissime, all’interno delle quali i personaggi si dispongono in pose spigolose e dinamiche, sempre senza perdere quel contatto con l’accademia che evidenzia agli occhi esigenti dei conservatori che Renna è “bravo”, uno che sa disegnare e dipingere sul serio. Perché poi arrivano i segnali di stile che rendono riconoscibile un autore dall’altro, e nel caso di Renna coincidono con colpi grafici di pennello che formano i riflessi e le ombre sopra alle campiture medie degli oggetti, le pieghe sugli abiti, le increspature sull’acqua, le fenditure nelle rocce. Il tutto con la sicurezza dei grandi, un tentennamento sarebbe intollerabile. Col tempo quei segni tracciati con istinto controllato diventeranno nei disegni di Renna quasi scarabocchi, un’eredità lasciata dall’arte informale. Data la differenza funzionale tra pittura ed illustrazione sembra impossibile che lo scarabocchio possa divenire congeniale all’illustrazione: eppure saranno proprio tali grafemi a costituire la firma di Renna. L’artista cercò di rivitalizzare l’illustrazione realista dall’interno, senza sconvolgere il campo con una rivoluzione, anzi testimoniando una piena aderenza al genere ma con l’intenzione di dire la sua. In Viaggio al centro della terra compaiono anche finiture ad aerografo laddove il ribollire del mare sollevi l’effetto flou, oppure quando si voglia evidenziare l’alone quasi mistico di una lampada nelle viscere della terra. Ma tale lampada è anche rappresentata in una tavola doppia con un pazzesco effetto scia, memore dei dipinti futuristi ed anticipatore di molto cinema fantascientifico. Insisto sulla parentela cinematografica in quanto credo sia la chiave di lettura più giusta, proprio perché l’artista riesce a creare un universo tendenzialmente geometrizzante senza uscire dal campo della rappresentazione realista. Le inquadrature di Renna sono sempre spettacolari e cercano un compromesso intelligente tra la vastità del campo visivo tipica del grandangolo e la visione retta del teleobbiettivo. Cioè evita le deformazioni prospettiche anche quando lo scorcio è molto spinto. Si veda la tavola doppia con il professor Lidenbrock affacciato sul baratro della grotta dove si stanno calando suo nipote ed Hans, oppure quella con l’arrampicata sul campanile della chiesa di Amburgo, da cui tutti i palazzi sottostanti appaiono perfettamente verticali. E che l’architettura di quei tetti tradisca poi la derivazione da fotografie scattate in Francia e non in Germania non è un problema per nessuno, le immagini di Renna sono comunque credibilissime. Ancora di cinema potremmo parlare in quanto sono decisamente più rilevanti le ispirazioni all’omonimo film di Levin del 1959 che non alle storiche incisioni di Riou. L’incredibile mineralogia sotterranea e la foresta di funghi giganti cercano di suscitare tutto lo stupore possibile. E lo spettacolo di Renna supera quello di Levin poiché nel film la scena clou dello scontro tra i mostri antidiluviani è assente. Tempo fa, relativamente ad un articolo su Giorgio De Gaspari (1) scrissi che una delle sue tavole di dinosauri era palesemente ispirata ad uno straordinario disegno di Renna con lo scorcio posteriore di un sauro marino. Alcuni lettori appassionati commentarono che non era possibile che De Gaspari avesse preso Renna come spunto, piuttosto era plausibile il contrario. Ma le date parlano chiaro: la tavola di Renna precede l’altra di otto anni. Piuttosto, ciò che ho scoperto da poco ed assolutamente per caso, è che esiste un modello precedente ad entrambi, risalente al 1954, fornito da una copertina di Urania (2) opera di Curt Cesar. Il mostro in questione venne rielaborato da Renna e reso ben più efficace nel plesiosauro all’attacco mentre il mare ribolle sotto ad un cielo livido: un’immagine da pelle d’oca che non si dimentica più.
Ecco, un insolito caso di classico illustrato splendido nonostante i paletti fissati dall’imposizione del realismo.
(1) A riguardo vedi l’articolo Giorgio De Gaspari e l’arte del disperdere le tracce nella sezione Ritagli di questo sito.
(2) L’era del dinosauro, collana “I romanzi di Urania” n.64, di Richard Marften, Mondadori, 1954.
Gianni Renna, Viaggio al centro della terra, testo di Giulio Verne (Jules Verne), collana “I classici illustrati” n.5, cartonato in quarto grande, Fabbri 1963.
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