Premiare gli asini è operazione perversa e costituisce errore pedagogico. O almeno così era nel secolo scorso. L’asino, in quanto tale, avrebbe dovuto restare relegato nel limbo della sua ignoranza o incapacità e, nei casi di somaraggine estrema, ricevere una punizione. Soltanto una progressione nella scala evolutiva gli avrebbe fatto conseguire risultati migliori, solo abbandonando la sua natura asinina sarebbe potuto giungere ad un benché minimo risultato, ma l’improbabile ipotesi di un’impennata genetica lo confinava a vita nella stalla. Eppure due menti sarcastiche pensarono che si poteva rimanere asini ed essere conferiti di medaglia; anzi, bisognava proprio restare ciucci perché Come il popolo è l’asino: utile paziente e bastonato. Questa frase di Domenico Guerrazzi fissava un’analogia difficilmente trascurabile, ispirazione per la nascita del settimanale illustrato L’Asino diretto da Giulio Podrecca e Gabriele Galantara, i quali vollero, con lo spirito provocatorio di sapore socialista anticlericale che li contraddistingueva, premiare gli abbonati della rivista – gli asini – con una medaglia satirica (1). Perché i popolani-asini, glissando sulle accezioni dell’ignoranza e della cocciutaggine e spingendo sui valori guerrazziani, un premio se lo meritavano, almeno tutti quelli che leggevano fedelmente il giornale. Certo non c’erano le circostanze per elargizioni sostanziose, e si optò per una medaglia che stimolasse lo spirito della risata, il gusto della battuta sagace, la risposta creativa alla stolidità delle tre nature del potere.
L’Asino comparve in edicola il 27 Novembre del 1892 e continuò ad uscire ( nel 1895 divenne persino quotidiano! ) nonostante sequestri e condanne, fino al 1925, quando fu costretto alla chiusura definitiva a causa dell’invenzione della figura grottesca di Mussolini-Giulio Cesare. Durante il suo percorso, in verità non solo costituito da caricature ed articoli di satira ma anche da divulgazioni e commenti, si impegnò spesso nella demolizione del tema miracolistico delle reliquie e la denuncia della relativa speculazione economica e di controllo delle coscienze operata da un clero tronfio ma scaltro sul popolo ingenuo e, appunto, somaro. Ed è in questa polemica che si piazza l’oggetto descritto nel presente articolo. Dalle pagine della stessa rivista si apprende che nel 1911 una campagna di boicottaggio da parte cattolica del settimanale venne messa in piedi convincendo i proprietari degli stabili a cui le edicole si appoggiavano a non concedere più gli spazi quando L’Asino fosse stato esposto. Nei casi più restii si era arrivati a corrompere i locatori con ingenti somme di denaro. Si invitavano così i lettori a sostenere il periodico e si pensò di incentivare gli abbonamenti tramite il dono di una piccola medaglia.
Sull’Asino del 4 Febbraio 1912 appare la seguente notizia: Il ciondolo portafortuna. Continuano le fortune dei possessori di Bepi-ciondolo, distribuito agli abbonati nostri pel 1912. Dal campo ecclesiastico – dove contiamo tante simpatie – passiamo al campo laico. Munito del ciondolo, Palamidone ritroverà sempre la sua maggioranza. Pietro Mascagni avrà la fortuna di evitare cause, querele, contravvenzioni: Sem Benelli troverà un soggetto senza toglierlo ai vecchi novellieri; Luisa di Sassonia farà la pace con Toselli per amore del ciondolo. Puccini pescherà a Torre del Lago un librettista che non gli regali la roba da cinematografo giapponese o americano; D’Annunzio, finalmente, troverà il modo di pagar i debiti senza rompere i ciondoli con le sue canzoni tripoline. Firmato : il giovane della montagna. (2)
Bisogna partire dunque dallo spiegare chi è “Bepi”. Trattasi del cardinale Giuseppe Sarto, nonché Papa Pio X, nato in provincia di Treviso e diventato patriarca di Venezia, insomma un veneto a tutti gli effetti, di qui il diminutivo scherzoso ( sulla rivista, nelle didascalie delle vignette a lui dedicate lo si fa parlare in dialetto ). Nella medaglia lo si vede incedere con passo furtivo verso un portafoglio smarrito(3), affiancato da un corvo-avvoltoio; per contrappasso la bianca colomba dello Spirito Santo dell’iconografia religiosa viene sostituita dal nero uccellaccio del malaugurio, rappresentante il Banco Romano (emanazione finanziaria del Vaticano), e più in generale tutta la curia romana. Il Papa, al quale scivola via la tiara dalla testa, è aggrappato ad una corda che finisce nel foro passante della medaglietta, girando la quale si vede un’altra scena e si spiega il capitolare del copricapo: un prete grassoccio ed un uomo in cappotto elegante, sono alle prese con la stessa corda, con la quale cercano di accalappiare un asino sellato ma recalcitrante che manda all’aria entrambi e rovescia a terra dei vasi. Il messaggio è chiaro, clero e borghesia vorrebbero essere ancora trainati dal proletariato, che però si ribella. Ma attenzione: visto che le funi terminano intorno all’occhiello, allora infilando il ciondolo in una catenella ed appendendocelo al collo facciamo il gioco dei potenti e rimettiamo l’asino, cioè noi stessi, al di sotto del giogo. Si tratta dunque di una medaglia genialmente ambigua, che contraddice la sua finalità, cioè l’essere indossata.
Papa Bepi è uno dei personaggi chiave dell’Asino, preso sì per il naso ma sempre in modo garbato, riconoscendogli una certa superiorità morale rispetto alle gerarchie vaticane e al clero in toto. Campeggia in modo pacioccone, non suscita l’antipatia tipica degli altri potenti, è lontano dagli scandali; Bepi viene dal popolo, è figlio d’un contadino e di una sarta e ha nove fratelli, forse se non fosse che è pontefice sarebbe un asino anche lui. L’inventore della macchietta nonché autore del disegno della medaglia, e forse anche del modello, è Gabriele Galantara, disegnatore di punta della rivista. Galantara era nato in provincia di Macerata da famiglia di origini nobili e si era formato seguendo le idee repubblicano-socialiste di Costa, Turati, Panzacchi e Carducci. Aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, città di cui aveva assimilato lo spirito goliardico e anzi, l’aveva in qualche modo fatto crescere disegnando per Ehi, ch’al scusa (cioè chiedo scusa umilmente) e Bononia Ridet ( titolo coniato per parodiare il motto altisonante Bononia Docet ). Elaborò un segno pesante per una satira grassa, ma anche perché i suoi soggetti, campagnoli o soldateschi, hanno animo ruvido così come aspetto sgraziato, non si addicono all’eleganza del Novecento floreale, piuttosto seguono una tradizione di grottesco spietato che fa la storia della caricatura da Leonardo all’Assiette au Beurre ( sulle cui pagine pure Galantara militò ) passando per la bottega dei Carracci. Se da un lato Galantara era riconoscibile anche per la sprezzatura di quanto vi fosse di periferico rispetto ai volti, dall’altro non si risparmiò mai nell’impegno profuso, disegnando a ritmo forsennato e fingendo la partecipazione di altri artisti firmandosi Blitz, Grottesco e con gli anagrammi Ratalanga e A.A.Lagrant.
La sue figure hanno bocche cavernose per lo slargo famelico, mani tozze e comunque artigliate sulle pile monetarie, corpi dalle curvature goffe, spesso ingobbiti sulle zolle dove sprofondano scomodi zoccoli di legno oppure incatenati ai ceppi del vizio, e più spesso della disperazione. Indimenticabili restano i volti emaciati dei proletari e quelli rubicondi dei sacerdoti, accomunati da una certa stupidità dello sguardo. Si è rimproverato spesso al disegnatore (all’intera rivista in verità) di fare una satira troppo semplice e grezza. Ma se certe imprecisioni grafiche sono da attribuire ad un processo di stampa non sopraffino, per il resto come avrebbe dovuto essere la satira di un giornale rivolto al popolo intero? Non sono state forse altrettanto sacrileghe e volgari le riviste di satira successive? Non è così anche oggi, con quel pochissimo che ne rimane?
Forse Galantara non fu raffinato come Daumier ma certo i suoi disegni possedevano la giusta forza per raggiungere lo scopo della loro realizzazione, altrimenti non sarebbe stato celebrato fuori d’Italia. E certe idee erano anche molto intelligenti. A partire da quella medaglia.
Note:
(1) Trattasi di un oggetto di due centimetri e mezzo di diametro e dal contorno irregolare, realizzato in bronzo. Frontalmente riporta Nel XX anniversario L’Asino ai suoi amici 1911. Ne venne coniata anche una seconda, nel 1919, delle medesime dimensioni, con testa asinina sul recto e al verso figura femminile con torcia in mano che calpesta alcuni simboli religiosi mentre sullo sfondo viene fatto esplodere un campanile, allegoria del crollo dell’istituzione ecclesiastica. In alto compare il motto Sono la mina. E’ firmata Farnesi. Tale medaglia risulta rispetto alla prima piuttosto retorica e nonostante il tema dinamitardo non possiede la carica dirompente della precedente.
(2) Suppongo che lo pseudonimo “giovane della montagna”nasconda i natali dello stesso Galantara, originario di Montelupone. Per quanto riguarda il testo non mi dilungherò a narrare delle disavventure di Mascagni o D’Annunzio, trovo però doveroso fornire spiegazioni sull’identità di “Palamidone”: con tale appellativo sull’Asino si faceva riferimento a Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia innumerevoli volte e bersagliato per un presunto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana. Cito Guido Neri dal suo Gabriele Galantara – Il morso dell’Asino del 1965: Giolitti era detto “Palamidone” per la sua lunga redingote di moda francese che usava portare. Con trasparente allusione agli scandali francesi contemporanei riguardanti la costruzione del canale di Panama, Goliardo (cioè Podrecca) scrive talora “Panamidone”.
(3) L’interpretazione dell’oggetto a terra come portafoglio è personale in quanto non si sono trovate notizie a riguardo. Si invitano i lettori dell’articolo e coloro che possiedono i numeri dell’Asino datati 1911 a fornire altre chiavi di lettura o cercare spiegazioni all’interno della rivista così da portare un contributo al pezzo. Sarò ben lieto di pubblicare le notizie che giungeranno in proposito.
01. Claudio Balestri
Possiedo detta medaglia coniata in mistura, colore similargento.
Le risulta questa tiratura in diverso metallo ?
02. Giorgio Perlini
Io non l’ho mai vista però era frequente in questo tipo di oggetti che il metallo variasse di lega, e dunque di colore, per motivi di economia, specie se era necessario ricorrere ad un secondo “conio” per raggiungere il numero effettivo dei pezzi. Escluderei l’ipotesi di esemplari in materiali più preziosi, come l’argento. Grazie per la segnalazione.