Sono stato indeciso se scrivere o no un pezzo su Vespignani per questo sito. Temevo di incrinare la lucidità di quello smalto prezioso che caratterizza l’ambito collezionistico, violare il concetto stesso di illustrazione come “illuminazione”, intorbidire l’allegria di un luogo in cui si parla di manifesti pubblicitari, figurine, disegni animati. Poi ho pensato che proprio in virtù di questa anomalia si giustificava un’operazione di inserimento che, tra l’altro, avrebbe reso giustizia – agli occhi dei pochi che leggono queste righe – ad un artista che mi sembra oggi quasi totalmente dimenticato. Io invece non riuscirei ad eliminarlo dalla mia memoria neanche se lo facessi apposta.
Nel 1982, ero al terzo anno di liceo scientifico, il palazzo dei Convegni di Jesi ospitò una mostra di incisioni di Vespignani. Entrai attirato, forse a tradimento, da un manifesto in bianco e nero che prometteva brividi da romanzo gotico; una signora decisamente vecchia, raggrinzita come un frutto essiccato e con gli occhi affondati nelle orbite scure, teneva in braccio un cagnolino. Era agghindata con un abito da inizio Novecento nella cui ampiezza si perdeva dentro, in particolare mi ricordo in cappello vistosamente piumato. L’immagine poteva anche richiamare Pirandello ma non vi era alcuna ironia. Era dolorosa e suscitava inquietudine. Un “memento mori” moderno, una metafora di tempo fugace, sicuramente più Leopardi che Pirandello. E la mostra era crudelmente bellissima. Ogni graffio di quelle incisioni era un graffio sulla pelle dello spettatore.
Quando uscii da quella mostra avevo un buco dentro. Per questo tornai a vederla, portando anche degli amici. Col senno di poi so che Vespignani è parte in causa di certe mie chiusure, certe amarezze, incupimenti di vita non raccontati o comunque espressi controvoglia. E sempre col senno di poi so quanto il mezzo artistico possa essere più efficace della realtà oggettiva per esprimere la realtà stessa, quanto il filtro creativo sia potente nel racconto della crudeltà banale. Tutte le fotografie ed i filmati di sciagure mondiali trasmessi in tv con l’imposta freddezza della cronaca televisiva non riuscivano, a sedici anni, a guastarmi una cena quanto una mostra di incisioni.
Il libro in questione è una antologia di sonetti di Gioacchino Belli, alcuni dei quali scelti tra i meno noti, e corredata da acqueforti di Renzo Vespignani. A dispetto dell’alto valore artistico del suo contenuto è un albo edito in veste economica, fornito di scarne note di traduzione dal romanesco, finanche brutto in copertina a causa dell’uso di caratteri di un rosso ingiustificabile nella sobrietà della pubblicazione, e ancora reperibile a prezzi a dir poco ridicoli. All’epoca, nel 1976, lo si immaginò come un libro alla portata di tutti, data la popolarità del Belli, autore da generazioni conosciuto sui banchi delle superiori e poi letto di nascosto a casa andando a scovare quei sonetti che i testi scolastici censurano ancora. Forse però le previsioni furono ottimistiche perché per anni i remainders hanno continuato a venderlo a metà prezzo.
Il libro si apre con L’incisciature, componimento che esalta l’attività sessuale come un gioco estenuante sebbene i partecipanti vorrebbero non avesse mai fine. I corpi disegnati da Vespignani, più anonimi dei personaggi di Belli (uno dei quali ha anche un’identità, si chiama “Giartruda”, nome pieno di “r” e di “t” che si confanno ai versi in cui si colloca), citano un noto dipinto espressionista di Egon Schiele intitolato “L’abbraccio” o anche “Gli Amanti”. Medesima stretta disperata, medesimo contesto di lenzuola aggrovigliate. Fin da questo primo confronto si connota una interessante discrepanza poetica: della goliardia della poesia non v’è traccia nell’immagine, dove l’accoppiamento è crudo, quasi doloroso. Questo doppio livello non causa straniamento e al contrario rende più interessante la lettura dell’operazione evitando la caduta didascalica. Ne El presepio de la Resceli Vespignani vira certe ricercate volgarità del poeta, che riesce perfino ad inserire parolacce in un componimento dedicato alla rappresentazione della sacra famiglia, in orpello baroccheggiante: il bambinello quasi soccombe al di sotto di un abito costituito da stratificazioni ex-voto. Eppure sempre volgare, nel senso di appartenente al popolo, resta il tutto, nell’atteggiamento poco realistico del personaggio, più un pupazzo da processione che una statua di Gesù bambino. Ai suoi piedi un teschio trasparente come se fosse di trina spiazza gli osservatori del pargolo. E ancora di morte sanno i tre frammenti per La vecchiarella ammalata, un viso e due braccia, perfetti per i versi del Belli che parla della vecchietta come se fosse trasparente controluce, solo pelle ed ossa. E la scompostezza dell’immagine con il senso di vuoto lasciato dal bianco al centro della pagina scuote forse più della presenza dei soggetti incisi. Er Cimiterio de la morte è un componimento dall’effetto decisamente comico. Belli dichiara di aver scoperto che all’interno della testa delle persone c’è sempre un cranio, dunque giunge alla conclusione che tutti quanti sono morti prima di essere nati. Vespigani glissa sull’ironia e propone un’immagine verticale con due centri ottici scuri, un teschio coronato di spine ed un volto di vecchia con fazzoletto ricamato in testa. L’occhio che passa dal’uno all’altro attraversa un groviglio floreale disordinato ed in parte avvizzito. Il richiamo religioso è dato dalla presenza seminascosta di un Santo – probabilmente Antonio da Padova – con il bambino in braccio. E per quanto non ancora teschio il volto de Er cardinale solomito mostra tutte le piaghe lasciate dal vizio negli anni, rendendolo il più spaventoso tra i personaggi del libro. Merita una menzione anche la sedia impagliata per La lavannara zoppicona, emblema domestico d’una realtà povera ai limiti del collasso, anzi, già distrutta nonostante gli interventi faticosi di cucitura e rattoppo.
Come sia possibile che un pittore/incisore dalla personalità forte e già formata riesca a mettersi al servizio di un poeta, che tra l’altro lo precede quasi di un secolo e mezzo (1), è difficile da immaginare. Non sono sufficienti la comune romanità e l’infanzia travagliata, fuga a Napoli e persecuzione da parte dell’esercito francese per il poeta e vita nascosta nella capitale occupata dai nazisti per il pittore. Se non fosse quest’ultimo a fornirci una soluzione faticheremmo a capire: “ Disegnare una poesia significa attraversare la scena, guardare appena gli attori e i fondali, e sorprendere l’autore nella buca del suggeritore. Ma il Belli non si fa scovare. Vuole dai suoi versi nient’altro che un calco del satiresco vociare plebeo (…) e ci riesce al punto di sparire come un anonimo, minuzioso relatore. Ma “la cosa vista”, gli oggetti esemplati dal vero, paiono già incarnati e, quindi, intraducibili per il pittore (…). Ai primi tentativi rimasi al palo della illustrazione. Misi via le lastre deciso ad arrendermi. Ma di tutti i sonetti letti e riletti, uno, Li malincontri, continuava ad arrovellarmi, ansia indefinibile o memoria esasperante. Finchè ricordai che da bambino anch’io avevo avuto un malincontro: e mi rividi sulla spiaggia di Fiumicino, allora solitaria e putrescente, a contemplare la carogna di un somaro abbandonata dalla piena del Tevere in un letto di canne e rami spezzati. L’incisione mi riuscì alla prima, il paesaggio ritrovato nella memoria, la “regazza” al posto dell’animale. Avevo trovato il fianco abbordabile del Belli nel vissuto che avevamo in comune. Che per me fosse la borgata di Portonaccio, e per lui Ponte e Trastevere, non rendeva meno diretto il contatto: lo stesso odore di miseria, lo stesso oscuro e trionfante pervertimento del reale (…) Le ultime lastre finii per inciderle direttamente dai miei ricordi, andando a cercare “dopo” i sonetti che potevano accompagnarle. E sono, almeno a mio gusto, le migliori: forse le sole nelle quali il Belli potrebbe riconoscere un’eco del suo carnale, veemente e funebre motteggiare ”. Mi sembra una dichiarazione bellissima. L’artista confessa un’impasse, poi scova un varco, ci si infila e capovolge la situazione fino a lasciarsi sfuggire quella frase rivelatrice: “ andando a cercare dopo i sonetti che potevano accompagnarle ”. Dunque il libro in questione non solo prende consistenza da una spontanea autonomia piuttosto che da una calcolata progettualità, ma potrebbe addirittura configurarsi come un’antologia di sonetti di Belli che illustrano le incisioni di Vespignani. Il pittore già formato e ben consapevole cambia tutte le regole del gioco dell’Illustrazione e rende il connubio splendido. Non esiste subordinazione, nessuno dei due artisti deve rinunciare a qualcosa, le loro personalità restano integre e si intrecciano mirabilmente. Mentre Belli fa una caricatura poetica(2), Vespignani fa dell’espressionismo realista. Non c’è alcun intento satireggiante nella sua denuncia. Non infierisce sui soggetti, che già vittime di una situazione oggettiva, diverrebero anche vittime dell’operare artistico. Al contrario si notano rispetto e pietà, che invece non sono contemplate nei confronti dello spettatore. Sei un intellettuale? Sei un collezionista? Forse sei solo un curioso? E allora guarda, e sentiti inquisito come se fosse colpa tua. Quelle immagini puniscono il pubblico mettendolo di fronte ad uno specchio che si infrange ad ogni sguardo dopo aver restituito un riflesso di morte. Come possano figure così poco rielaborate colpire più dei soggetti reali resta uno dei grandi misteri dell’arte.
(1) Gioacchino Belli (1791-1863). Renzo Vespignani (1924 – 2001). Entrambi sono nati e morti a Roma.
(2) Credo che un ideale interprete vivente di Gioacchino Belli possa essere trovato in Riccardo Mannelli. Riscontro in lui quella ferocia satirica lontanissima dalla personalità di Vespignani.
Trenta sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli con le incisioni di Renzo Vespignani, introduzione di Enzo Siciliano, Bur, 1976, brossurato, formato in quarto, 80 pagine numerate, illustrato in bianco e nero.
01. Enzo Schirripa
Complimenti per il commento
02. Enzo Schirripa
Complimenti per il commento
03. Giorgio Perlini
Grazie!