Splendori e miserie della birra nell’immaginario del XX secolo.

Parte III: Boom molto economico ed arte molto cara, ovvero spirali neobarocche discendenti verso l’alcolemia proletaria.

drunk homer

di Giorgio Perlini

Quando John Gilroy andò in pensione la televisione esisteva nel Regno Unito da più di trent’anni, ed in Italia era già nato Carosello. Azzardando in terra straniera un equilibrismo della lingua paterna potremmo dire che alcuni “caroselli inglesi” della Guinness mostravano proprio i personaggi di Gilroy a cartoni animati. La cosa non sarebbe potuta accadere nel nostro paese dove alcool e cartoni non vennero mai abbinati e non solo per motivi di target; certo l’impatto sarebbe stato forte, alcuni cartoni realizzati per Carosello costituiscono vette dell’animazione commerciale raggiunte una sola volta, ma l’accostamento non avrebbe superato il visto della rigida censura dell’epoca, e l’operazione sarebbe apparsa come deviante. Dunque la birra, almeno da noi, fu tutta reclamizzata con immagini e spot con vere attrici bionde, dalla carnagione pallida e dall’aria poco nostrana, ché l’elemento straniero conferisce sempre una nota di fascino ( erano gli anni del boom delle estati sui litorali adriatici, quelli del maschio latino a caccia della turista tedesca, gli anni delle attici con la kappa, la Koscina, le Kessler, la Kristel, che se non era germanica era olandese o su di lì ). Lo slogan più celebre resta “ Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, che identificava la bevanda con la figura ironicamente neostilnovistica della donna angelo salvatore, seguito da “Chi ha naso beve Dreher”, decisamente meno simpatico, in cui prevaleva lo stereotipo presuntuoso dell’uomo dominatore.

Alcuni degli spot e dei manifesti in questione erano divertenti ma avevano perso la vena artistica delle epoche precedenti. Il messaggio che passava, e che si è fissato, è che la birra è per tutte le classi sociali e si pone non come un surrogato del vino né come un liquore, bensì come una bevanda con cui pasteggiare ma anche bere da sola, un dissetante da gustare in compagnia. Questa popolarizzazione, su cui – l’abbiamo detto in precedenza – il prodotto si era già avviato, avrebbe comportato un abbassamento dell’immaginario, ancora piuttosto alto in certi spot di Carosello. Anche gli artisti percepirono la calata tra le masse della nobiltà decadente, anzi decaduta, dell’elisir del luppolo; tra le icone della pop-art, forse meno nota della zuppa Campbell o del detersivo Brillo ma altrettanto triste, c’è “Ballantine Ale” opera di Jasper Johns del 1960; trattasi di una coppia di lattine di birra a grandezza naturale, realizzate con una fusione di bronzo successivamente dipinta con mano poco raffinata. Il fatto che una delle due lattine sia stappata e l’altra chiusa ha dato adito a molteplici interpretazioni dell’opera che non cambiano il senso primario, l’arte ridotta a bene di consumo si serve di un altro bene di consumo per essere se stessa, cioè arte. L’alluminio diventa bronzo, il fatto a macchina diventa fatto a mano; ed appoggiando l’opera su di un basamento il supermercato si trasforma in museo ed il gioco è fatto; il prezzo, quello sì, a dispetto delle masse resta tipico dell’opera d’arte (ad un’asta recentissima è stata venduta per seimila dollari una litografia a colori col medesimo soggetto, figurarsi il valore della scultura, che a quanto pare venne realizzata in un unico esemplare).

In questo clima dove arte e pubblicità sembravano non essere più scindibili, mentre Gatto Silvestro promuoveva i piselli De Rica, in ambito controcultura apparve nel 1972 (solo per un attimo in Italia) il gatto Fritz, di Ralph Bakshi. Primo film a cartoni animati della storia del cinema ad essere vietato ai minori di diciotto anni, “Fritz the cat” narra le disavventure di un sordido micio, residente in una periferia degradata, che trascorre – con la notoria pigrizia felina – le sue giornate facendo sesso in compagnia di amichette decisamente meno avvenenti di Jessica Rabbit e all’occasione abusando di birra, whisky e qualunque droga gli capiti a portata di zampa. Il personaggio era una creatura di Robert Crumb, nata in ambito fumetto. In quegli anni, a più di mezzo secolo dalla sua nascita, quel mezzo di comunicazione artistica straordinario viveva un momento di fermento e diffusione anche in Italia. Se lo specifico del medium è la narrazione attraverso l’unione di due codici, uno scritto ed uno figurato, proviamo a capire cosa succedeva – o sarebbe successo di lì a poco – nell’associazione tra l’immagine della birra ed linguaggio dei personaggi nelle produzioni a fumetti. Consentitemi una carrellata disordinata e veloce, poco più che un elenco, per esprimere un concetto.

Iniziamo con l’irriducibile villaggio gallico, che resiste da solo all’imperialismo romano, pochi e ultimi ma che menano forte. Le cene del suddetto villaggio si svolgono sotto libagioni di cervogia (dal latino “cerevisia”, cioè prodotta dai cereali) ( e si mangia cinghiale ), poi si finisce tutti ubriachi a pancia all’aria tranne il povero bardo rompicoglioni, legato ed imbavagliato alla quercia secolare. Per quanto Asterix e compagni si atteggino ad eroi nazionali rivelano sinceramente le loro origini celtiche, dunque barbare. Imprecano in modo divertente, Uderzo disegnava all’interno dei loro balloon teschi trafitti da pugnali, dentiere serrate su caviglie, nuvole temporalesche, asce vaganti. Beve birra Wolwerine, che è una bestia già di suo, figurarsi quando è alticcio, il suo linguaggio è il più aspro tra quello di tutti i supereroi a parte Lobo, che infatti beve birra più di lui. Beve birra il capitano Haddock ché Tin Tin da solo sarebbe troppo serio ed il fumetto ha bisogno del suo bell’elemento dionisiaco, così da disordinare lo stato delle cose. Quando beve insulta tutti quelli che capitano a tiro, con particolare accanimento verso la coppia di poliziotti gemelli che rappresenta l’autorità, incapace quanto si voglia ma pur sempre autorità. Beve Lone Sloane (birra ma anche Cocalcool) e poi fa ben altro che inveire contro le istituzioni, e come lui anche il detective John Difool (personaggio poco noto, eppure si tratta di una delle innumerevoli creazioni di una delle delle altrettanto innumerevoli personalità di uno dei più grandi disegnatori del Novecento, il compianto Jean Giraud che si firmava Moebius ). Dylan Dog non beve birra perché ha chiuso con un passato in cui ne ha bevuta troppa, in compenso beve il suo amico tutore, l’ispettore Block, che sarà pure un buon diavolo d’uomo ma si sente un fallito e non vede l’ora d’andarsene in pensione. Dal canto suo Dylan Dog non beve più ma impreca, con una certa originalità consona al personaggio, tirando in balle le figure della storia sacra: “Giuda ballerino”, espressione probabilmente derivata dall’inglese “Jumping Josaphat” per la verità più adatta al circolo del bridge del Duca di Wellington che al pub sotto casa, e sul sommo traditore si suol dire ben di peggio ma tant’è.

La lista degli abbirrazzati potrebbe continuare ( Handy Capp, Ranxerox, B.C., Corto Maltese) (e chissà se l’origine del cognome di quest’ultimo è quella che si racconta o c’è dietro qualcosa di più attinente al nostro discorso…) ma ciò che emerge è che per essere un bravo eroe dei fumetti non bisogna bere (birra). Quelli buoni non bevono. Voglio dire che non c’è nessuno che beve e rimane di sani principi. A parte Tex Willer. Lui resta splendido anche dopo due pinte. Nella sua inamovibilità è inossidabile anche il linguaggio. Non ci crederebbe neanche Calandrino del Boccaccio che uno che a mani nude pesta i Messicani col Winchester e pure i Seminoles armati di lame di trenta centimetri dice “peste!” e “fulmini!”. I tempi e la morale cambiano ma lui continua a dire “peste”(*)

Viaggiando così nella burrasca al termine degli anni Ottanta qualche pubblicitario cercò il recupero con l’invenzione dello spot stiloso derivato dai videoclip musicali, come quello della McFarland (le signore impellicciate coi levrieri al guinzaglio, vi ricordate?) ma il salvataggio si rivelò un naufragio. Anzi, arrivò anche l’agognato cartone animato con la birra, stavolta realizzato al di fuori dal contesto underground di Crumb, e che ahimè, non solo confermava la tendenza alla caduta in basso del prodotto, ma ne decretava il raggiungimento del fondo. Una famiglia americana media, disegnata con uno stile volutamente sgradevole e colorata di giallo come se tutti avessero l’ittero, è protagonista di storielle domestiche che si beffano di usi e costumi del popolo degli Stati Uniti d’America. Il capo famiglia risponde al nome di Homer Simpson ed è l’apologia dello stordimento ottuso; trascorre il suo tempo libero sprofondato nel divano davanti alla tele, mangiando frittelle e bevendo birra. (Queste lattine esibiscono pure una marca fittizia, la Duff ( termine che sta ad indicare sia il fondo schiena nello slang americano sia l’aggettivo “alterato”). La bevuta libera il rutto e la personalità vigliacca ed infingarda di Homer. La questione linguaggio diventa sempre più interessante, Bart Simpson resta memorabile per il suo “eat my shorts”, tradotto in italiano “ciucciami il calzino” ma il vero significato sarebbe “baciami il culo” e sul modello dell’allegra famigliola nasce una numerosa serie di cartoni animati emulativi sempre più sboccati. The Simpsons, nato in realtà come prodotto adatto ad un pubblico critico, dunque adulto, nel giro di pochi anni diventa un cult anche tra i bambini ed inizia il merchandising di tutto ciò si vede nella serie, comprese le suddette lattine. Dunque qualcuno, dato il successo riscosso, ha pensato di produrre realmente la birra inventata per il cartone. Sì, c’è qualcuno che per questioni di mercato produce qualcosa che si pone, fin dalla nascita, come volgare e di bassa qualità, e forse proprio per questo proletariamente piacevole; insomma una birra non per intenditori, ma per chi si immedesima in Homer, o per lo meno nell’individuo della massa. E chi nutrisse ancora dei dubbi sulla tesi può andare a vedere l’episodio in cui si svela il segreto della birra rivale, la Red Tick Beer, fedelmente tradotto Birra Zecca rossa, la cui fragranza è ottenuta facendo nuotare dei cani in mezzo alla birra dentro alla caldaia di rame…

Se Homer Simpson rappresenta l’icona grafica più efficace dell’abbrutimento birraiolo, molti modelli simili potremmo riscontrare in campo musicale specie nell’Hard Rock e nel Metal, dove si conferma la visione sopra esposta.

Con tutto ciò non si vuole affatto dichiarare che la birra sia bevanda di serie B, anzi, se dovessimo esporre i nostri pensieri personali giungeremmo proprio a conclusioni opposte. Negli ultimi anni si è assistito ad un notevole tentativo di riscatto; produzioni artigianali, presidi alimentari, birre aromatiche, ed altri prodotti di alta qualità vanno nella direzione opposta. Il punto è che, sul piano dell’immagine pubblicitaria o più genericamente collegata al prodotto, nessun risultato ha avuto la forza di contrastare l’immaginario descritto.

A parte qualche gadget collezionistico, di cui ci occuperemo prossimamente.

 

 

(*) Tergiverso solo perché si tratta di una nota e forse perché le lattine sulla scrivania, in questo Agosto afoso, hanno raggiunto un numero limite.

Io una volta ci ho provato a credere che Tex parlasse così; frequentavo la terza elementare e di pomeriggio si giocava a fare i cowboys con le Colt a capsule. Sto parlando di un’era felice in cui non si sapeva che qualcuno aveva già coniato l’espressione “politicamente scorretto” che poco tempo dopo avrebbe messo in crisi i genitori ignari (e anche i costruttori di suddette Colt a capsule). In una di queste circostanze, durante una finta rissa, esclamai “peste!” per emulazione willeriana. Il gioco si paralizzò di colpo, i compagni mi fissarono attoniti e mi dissero: “ma come cazzo parli?” ed uno aggiunse “sei finocchio?”. Per recuperare esposi un ricco vocabolario di oscenità genitali e la scazzottata riprese in allegria.

 

 

Apparso sul n.2 del magazine on line NONSOLOBIONDE.IT (2013)

 

 

 

 



© 2013 tu(t)ti libri, io mi libro - powered by (rob.a) grafica