Scrivo sempre, o quasi, su autori scomparsi, o comunque che non conosco personalmente. La distanza spazio-temporale mi permette di essere imparziale e dire ciò che voglio. In questa circostanza invece c’è una amicizia che mi lega a Giuliano e che si interpone al lavoro. Il rischio non è quello di logorare un legame, perché non avrei motivi per giudicarlo severamente, e del resto non penso neanche che resterebbe troppo offeso se lo bacchettassi, anzi, accetterebbe le osservazioni in modo costruttivo. Il rischio vero è quello di mancare di obiettività nell’analisi e celebrarlo nell’enfasi di un affetto. Dunque mi sforzerò di essere critico.
Quando lo incontrai per la prima volta era il 1994 ed insegnavamo la stessa materia, Storia dell’Arte, nella medesima scuola, il Liceo Classico Trissino di Valdagno. Arrivati a discutere di fumetti Giuliano mi disse con modestia che lavorava su personaggi poco celebri (in realtà aveva disegnato anche Alan Ford) ed era particolarmente concentrato su Arthur King. Quel fumetto dalla breve esistenza era distribuito quasi regolarmente in tutte le edicole e nonostante l’aspetto fin troppo smilzo di un albetto spillato sovrastato da pubblicazioni ben più corpose era di gran tendenza tra i ragazzi e molti miei studenti lo leggevano. All’epoca io ero dedito principalmente alla scultura ma dato che mi disturbava il vuoto alla voce “fumetto” nel curriculum estraevo all’occorrenza un lasciapassare ibrido: la mia realizzazione, immediatamente precedente all’insegnamento, dei videogiochi di Diabolik, Tex e soprattutto Dylan Dog. Oggi se riguardo quelle immagini sgranate e dai movimenti meccanici sorrido di fronte a tanto pionierismo autarchico, ma pare che abbiano ancora un nutrito pubblico di appassionati, e in quegli anni vendevano parecchio. Insomma, tra me e Giuliano ci fu per mesi, durante le ricreazioni e quei tempi sospesi che il gergo scolastico ha battezzato “ore buche”, uno scambio frammentato ma profondo e appassionato, fin quando un giorno, nel suo studio, io che spesso parlo troppo ammutolii davanti alle cinque tavole di una storia di Arthur King al tempo ancora inedita. Fin lì mi era stata chiara di Giuliano una certa versatilità nell’adattare il segno da un personaggio all’altro, caratteristica propria di pochi disegnatori, ma non ero riuscito ancora a vedere quanto fosse bravo, ovvero fino a che punto potesse giungere la pienezza espressiva del suo lavoro. Il mio amico sapeva piegarsi alle richieste sui fumetti inventati da altri ma per questo doveva disegnare con tempi piuttosto stretti e forse non era creativo fino in fondo. Ma la sorpresa di quelle cinque tavole, l’emozione che mi suscitarono, le ricordo bene. Si trattava di una storia scritta da Giuliano stesso, dunque particolarmente sentita. L’esiguo numero di pagine lo aveva indotto a dedicarsi anima e corpo al lavoro, eseguito a mezzatinta, ovvero colorando con l’inchiostro nero diluito fino a simulare in certe circostanze effetti da acquerello. Le illustrazioni prendevano una volumetria speciale, i corpi uscivano dalla tavola. Ma questa cura era mascherata così da far apparire tutto molto veloce, in sintonia con la cifra del personaggio. La storia, chiamata “Audiraptors” sarebbe apparsa mesi dopo in un albo speciale di grande formato, all’interno del quale venne inserita anche la ristampa di un’altra storia di Giuliano intitolata “Chiedilo alla polvere”, che rappresentava uno degli apici dell’intera serie e così esaltata dalle dimensioni dava la possibilità al lettore di scorgerne tutti i dettagli. Alcune teatralissime splash pages erano un originale distillato, frutto della lettura meditativa del fumetto americano tra Bill Gaines e Marvel, però in osmosi con i francesi di Métal Hurlant.
Ciò che ci dicemmo quel pomeriggio fu in qualche modo seminale perché quando, qualche giorno dopo a scuola, riprendemmo le nostre conversazioni – delle quali per inciso sento la mancanza – ci chiedemmo se per un disegnatore di fumetti fosse più soddisfacente entrare a far parte di qualche osannata squadra sacrificando parte della propria libertà, oppure restare individualmente ostinato sulle proprie scelte stilistiche quand’anche ciò comportasse una prevedibile rinuncia alla gloria. Col senno di poi Giuliano avrebbe scelto entrambe le strade, e questo la dice lunga sulle sue capacità. Sarebbe infatti diventato uno dei disegnatori seriali di quegli editori che sembra non possano essere nominati se non accoppiando il loro nome al triste vocabolo “scuderia”, ma contemporaneamente avrebbe scritto e disegnato storie interamente sue. Il tutto cambiando sempre stile, col rischio paradosso di non venir immediatamente identificato guardando le sue tavole. Per come io vedo le cose Giuliano uno stile prediletto ce l’ha, ed è quello grottesco che gli viene spontaneo quando disegna per se stesso (o per gli amici). Quando è al lavoro sui protagonisti del fumetto nazionale, quello comunemente detto “realistico” la sua matita perfetta per le prospettive, per le architetture complesse e perfino per la resa dell’aria che si interpone tra i vari piani della scena, si rivela un po’ troppo tecnica nella definizione delle fisionomie. (Ecco, ci sono riuscito ad essere critico). L’aderenza al personaggio è tale da sfiorare una sottomissione, potremmo forse definirlo un eccesso di professionalità. Tanta dedizione alla causa conduce dentro ad un anonimato che è impensabile quando Giuliano è libero. Il punto però è che negli anni Novanta di opere come Arthur King se ne creavano poche. E allora, se da un lato “bisogna portare a casa la pagnotta”, dall’altro bisogna sfogarsi in clandestinità. Ho avuto il privilegio di ricevere per anni i suoi biglietti di auguri, prima che internet interrompesse questa piacevolissima tradizione; dentro quei disegni furtivi eseguiti all’interno di tempi rosicchiati in segreto a quelli dedicati ai grandi disegni pagati, spero bene, per i mensili da edicola, c’è una creatività che giunge a guizzi di genio. E non solo nell’esecuzione in sé ma anche nell’idea. In tali opere, è giusto chiamarle così, Giuliano si rivela autore completo e di livello altissimo. Fa caricature dei suoi amici che dissertano di comics, fa autoironia sui suoi impacci di lavoro causa impegni di famiglia ma contemporaneamente realizza biglietti che annunciano la nascita dell’ultimo figlio, si finge pentito per la prassi di inviare fotocopie al posto di originali inventando il disegnatore-androide Fotocop che spara pagine dalla cavità orbitale, illustra cartoline natalizie sul tema della clandestinità mostrando Babbo Natale, Gesù, i Re magi e la Befana quali essi sono, e cioè immigrati. Nel 2008 il postino mi consegna un capolavoro: un biglietto di buon anno alto e stretto aprendo il quale si sviluppa un trittico simbolista e volutamente contradditorio dominato da una Atena Parthenos con i pennarelli al posto della lancia e la palla da rugby come scudo. Suppongo sia una divinità-rifugio personale, circondata da immagini di guerra e consumismo mascherate di pacifismo ipocrita (*). Traspare l’assimilazione di vecchi maestri, Jack Kirby, Will Eisner, Jack Davis, e anche di uno più recente, Kevin O’Neil. E sì, per capire ed apprezzare al massimo Giuliano era necessario uscire dall’ambito mainstream e frugare in mezzo a quanto un occhio distratto avrebbero reputato scartoffia. Per fortuna i tempi sono cambiati ed esiste oggi una certa attenzione anche al fumetto di tipo non realistico. Così qualche editore ha capito quanto questa verve artistica meritasse di andare in stampa tipografica piuttosto che in fotocopia. Ecco sbucare in fumetteria Graspaman, Villa Transilvania, Only West Baby, Le vite dei fumettori. In particolare, questo ultimo lavoro ancora in corso è eseguito veramente in stato di grazia da un Giuliano che riversa passioni e conoscenze in un’opera che è la summa di anni di seri studi dell’autore e contemporaneamente un gran divertimento per chi la legge. Il climax, sebbene sia reso con la medesima cura dedicata ai fumetti realistici, in questo caso non sottrae attenzione ai personaggi perché l’autore è libero di caratterizzarli col suo segno allargato, spigoloso ed ironicamente espressionista. Qui ritrovo, in forma organica e perfetta, tutta l’attrattiva dei pupazzetti augurali che Giuliano disegnava quasi in segreto. Ed il guizzo di una genialità narrativa: il fantasma dello storiografo dell’arte Giorgio Vasari, autore delle “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”, per ben comprendere le forme artistiche del contemporaneo decide di recarsi a casa di un “fumettore” e chiedergli delucidazioni in proposito. Il “fumettore” scelto è Giuliano, al lavoro su di una avventura di quelle classicissime, per la precisione una storia di Zagor. Mi pare che la trovata sia tanto intelligente quanto sintomatica: l’autore-disegnatore fa sì che il fumetto “altro” scalzi via quello famoso, una rivincita dell’underground, una presa di coscienza dell’artista che è ormai in grado di imporsi con scelte stilistiche decisamente personali. Mi limito a citare il pittore Lippo Topo -forse esistito veramente- connotato come sorcio artistoide con le fattezze di un Pippo lisergico, la parodia della Cappella Sistina con il profeta Ludopatiah dallo sguardo ipnotizzato e col controller in mano, e la Sibilla Selfica intenta a fotografare se stessa. No, non lo dico per amicizia, lo dico perché ne sono convinto: che meraviglia…
(*) L’opera in questione è stata superata in bellezza in tempi recenti da un’illustrazione apparsa on line, presente in mostra e pubblicata su questo catalogo, intitolata “L’atelier dell’Artista”, in cui Giuliano fa il verso a Gustave Courbet infilando nello studio una pletora di nuove figure allegoriche eterogenee che comprendono Le Corbusier, Tommie Smith, il film Metropolis, J.R. Bob Dobbs della chiesa del Sub-Genius, il celebre Robby di Forbidden Planet, i Laibach e la loro provocazione artistica sulla creazione di un nuovo stato europeo.
Prefazione al catalogo della mostra di Giuliano Piccininno NON(A)RTE alla QU.BI. Gallery di Vicenza, Dicembre 2021.
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