Mario Palanti e l’utopia del Ventennio

Quando l’architettura di Mussolini incontrò Lovecraft

di Giorgio Perlini

 

La narrazione a posteriori di quanti hanno vissuto l’epoca fascista, ma anche di quanti l’hanno solo immaginata, ha fossilizzato l’immagine di un ventennio monolitico piuttosto stolido, allergico all’innovazione, disattento alle differenze, tutto orientato alla retorica. Ma il discorso relativo alla politica non sempre corrisponde in modo pedissequo alla produzione artistico-culturale, anche quando vi sia un intreccio saldo tra i due aspetti. Taluni libri realizzati sotto il fascismo rivelano fantasia, arguzia e spirito avanguardistico, siano essi concepiti per lettori adulti oppure destinati ai più giovani. Il libro imbullonato Dinamo-Azari Depero Futurista ne è un esempio celebre, come pure i 92 volumi della Scala d’oro Utet, o I quattro moschettieri di Nizza, Morbelli e Bioletto, divenuti addirittura fenomeno di costume (1), ma si pensi anche ad opere meno note e più propagandistiche: il libro-documentazione Mostra della rivoluzione fascista del 1933, con la sua impaginazione modernissima, oppure il manuale Il capo squadra balilla del 1935, disegnato da Raoul Verdini -che pure non era un mostro di originalità- centrando l’intento di declinare per i bambini un Futurismo mal digerito dagli adulti, se pure appartenenti all’avanzata borghesia. Vi è poi un tanto curato quanto sconosciuto abecedario poetico intitolato Italia dall’A alla zeta, scritto Fraschetti ed illustrato Testi, che costituisce forse il capolavoro grafico dell’editoria di propaganda per bambini. E che dire dell’Almanacco anti-letterario del 1937, in cui spiccano Erberto Carboni e Bruno Munari, i quali trattano con ironia grafica ogni tematica proposta, senza tralasciare i discorsi del Duce né tantomeno la sua immagine? E sia chiaro che l’editore è Bompiani, dunque trattasi di una pubblicazione ufficiale, non del frutto clandestino di chissà quale controcultura (2). Il discorso meriterebbe spazi ben più approfonditi, a me serve per contestualizzare velocemente un’opera dimenticata e sorprendente, che sembra disegnata da uno scenografo cinematografico dei nostri giorni per un colossal affidato al più spettacolare dei registi. Dall’aspetto esteriore però non trapela nulla: L’Eternale Mole Littoria dell’architetto Mario Palanti è un libretto di piccole dimensioni, con copertina sobria in tela e fascio dorato stampato a secco. Insomma una delle “solite” opere mussoliniane con i motti e le firme all’apparenza calligrafiche ma in realtà riprodotte a stampa, i proclami (noiosi), le critiche entusiaste dei personaggi di spicco. In effetti il libro contempla anche tutto ciò ma quando giunge alle tavole (che avrebbero meritato un formato ben maggiore ed una stampa più raffinata) sbalordisce il lettore. Palanti, milanese dal gusto eclettico, vira la retorica fascista in chiave archeologico-fantascientifica, progettando un edificio che sembra riportato alla luce dopo il passare di ere lunghe e misteriose. Da anni si impone l’esigenza di un edificio romano che celebri il regime e lo rappresenti come “San Pietro il Cattolicesimo, l’Altare della Patria il Risorgimento (…)” poiché “vi è (nella gente) l’insopprimibile aspirazione che si manifesta nella frenesia delle passioni portate al massimo della saturazione, alla conquista della vetta, in ogni campo di azione. Dare a queste aspirazioni una meta di attrazione e di concentrazione, un fuoco che abbia tutti i requisiti della irresistibilità psicologica, del non plus ultra della grandiosità e della moda, è il mezzo più sicuro di capitalizzare la suggestione di Roma Signora del mondo”. Egli propone una costruzione che ignora le forme avanguardistiche dell’architettura e celebra un passato aureo in una commistione stilistica incredibile, non solo classica ma frutto anche dello studio dei templi induisti e buddisti, in primis quello di Angkor-Wat. Sono infatti gli edifici religiosi ad attrarre Palanti. Sebbene la Mole Littoria sia anche centro di potere politico essa deve configurarsi come luogo dell’esaltazione dello spirito, in anticipo su quella mistica fascista che avrebbe consacrato Evola come sacerdote massimo. Alcune tavole ben evidenziano l’ispirazione dalla moschea di Santa Sofia, aleggia un bizantinismo di arcate ed esedre ovunque seminate e se l’ascensione al divino si concretizza nello sviluppo verticale sono le molteplici cupole a suggerire le sfere degli empirei. Due caratteristiche appaiono determinanti in questo senso nei disegni dell’architetto; la prima è la presenza dell’acqua. Non solo quella del Tevere (e della sua importanza nell’origine mitologica della città), scavalcato da ponti che garantiscono l’accesso alla Mole, ma quella di grandi polle interne che appaiono inondare livelli sotterranei della costruzione. Questi specchi pieni di riflessi, disegnati con una certa ambiguità, potrebbero anche rappresentare pavimenti tirati a lucido ma evocano comunque la sacralità dell’elemento liquido, la sua necessità vitale, la ritualità del battesimo. Vi è un dannunzianesimo fortissimo, eppure il poeta è l’illustre assente tra i commentatori del libro. Forse l’assenza è giustificata: nell’anno precedente il Duce ed il Vate si erano incontrati al Vittoriale nella stanza del Mascheraio e gli aneddoti riportati in proposito confermano quanto il loro pensiero fosse divergente. La seconda caratteristica importante è l’illuminazione dal basso. Una luce endogena proveniente da una fonte ctonia spara le ombre verso i cieli e conferisce un’atmosfera magica ad interni ed esterni. Se si pensa che la prima edizione di Metropolis of tomorrow, in cui l’architetto Hugh Ferriss usa una analoga illuminazione dei grattacieli americani, è posteriore di tre anni, si capisce quanto il lavoro di Palanti risultasse personale. Retorico sì, eppure folgorante nella sua originalità. Come se le Carceri d’invenzione di Piranesi fossero state sottoposte ad un processo di razionalizzazione mantenendo intatta l’idea della ricerca dell’infinito. E proprio qui, nella visualizzazione di un culto ufficiale tutt’altro che innominabile o blasfemo (sebbene molti degli stessi adepti, una volta crollato il regime, lo riterranno esattamente così), risiede la differenza, forse unica, tra le architetture dalle geometrie impossibili del cinema di derivazione lovecraftiana e quelle di Palanti. Do per certo che tra i due non vi fosse conoscenza alcuna, di sicuro Palanti non leggeva Weird Tales ed i palazzi costruiti dall’architetto in America Latina, quand’anche lo scrittore ne fosse venuto a conoscenza, non appaiono così oscuri da poterlo suggestionare. Eppure, col senno di poi, la parentela sembra stretta. Esistono disegni di Palanti risalenti al 1919, dunque precedenti al libro, in cui un edificio genericamente denominato “mausoleo” sembra estratto a colpi di scalpello dalle rocce su cui poggia. E andando a guardare l’evoluzione della Mole, dai progetti del 1924 a quelli del 1926, a fronte di un inevitabile ridimensionamento (dai 330 metri d’altezza, quindi il più alto edificio al mondo, fino a 90) vi è un riempimento del nucleo centrale, con pianta apparentemente mutante a fiocco di neve, che moltiplica spazi e direzioni. Meno grattacielo e più sacrario alieno, una vera montagna di pietra (in realtà cemento armato occultato dal marmo di Carrara) (3) di cui sembrerebbe scontato il concepimento all’interno di un sogno utopico e che invece venne ideata per essere realizzata davvero. Ma come in Lovecraft tutto è fantasia. A meno che, in altri mondi…

 

 

(1) Si veda in proposito Angelo Bioletto ed i quattro moschettieri (sì, certo, col feroce saladino), nella sezione “Grammatura leggera” di questo sito.

(2) Valentino Bompiani era originariamente il segretario di Arnoldo Mondadori. Quando decise di rendersi autonomo, nel 1929, sembra che Mondadori gli abbia ceduto i diritti per la pubblicazione dell’Almanacco Letterario, che usciva dal 1925, a titolo di buona uscita. Entrambi gli editori ebbero rapporti più o meno stretti col Fascismo.

(3) Il cemento, materiale importante nell’edilizia dell’intero Novecento, divenne fondamentale nelle opere di Palanti; sostituì infatti l’argilla nel “Palandomus”, un mattone ideato dall’architetto milanese, dotato di una forma sagomata ad onde che conservava le caratteristiche modulari aggiungendovi l’impossibilità di slittamento anche nelle costruzioni a secco.

 

Mario Palanti, L’Eternale Mole Littoria – Roma MCMXXVI, telato con stampa in oro a secco, in ottavo, Rizzoli, 1926.

 

 

 




Commenti

  1. 01. Paolo Forni

    Ottimo articolo e come sempre illuminante. Erberto Carboni ha illustrato con il suo tratto veloce e graffiante moltissimi numeri de Le Grandi Firme, rivista diretta da Pitigrilli

  2. 02. Giorgio Perlini

    Caro Paolo, Carboni è stato un personaggio determinante nella storia della comunicazione pubblicitaria italiana. Particolarmente significativo il suo contributo grafico per la RAI. E’ una figura nota solo agli addetti, ma alcune mostre degli ultimi anni lo hanno riportato in luce. Non sapevo fosse anche tra gli illustratori de Le Grandi Firme, sarebbe interessante uno studio su qui lavori.


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