Nell’inverno del 1927 Winsor McCay mandava in stampa le ultime tavole di Little Nemo in Slumberland, opera di raffinatezza grafica inarrivabile nonché pietra miliare della storia del fumetto. Era il 9 Gennaio quando i lettori del New York Herald se ne riempirono gli occhi per l’ultima volta. L’avventura era iniziata nel 1905, in piena esplosione Art Nouveau e McCay aveva contribuito non poco alla definizione di certi stilemi estetici ed alla loro diffusione. Giunti al 1927, da tempo, l’avanzata delle Avanguardie storiche aveva abbattuto l’arroccamento della bellezza classica anche in campo popolare ed il Liberty si era dovuto evolvere in Art Déco, certo ancora bellissima eppure sobria e quasi ergonomica. McCay, consapevole di tutto questo, iniziava una ritirata dal faticoso disegno del fumetto per passare alla più distensiva illustrazione di articoli di giornale.
Ma in quello stesso 1927, pochi mesi dopo, appariva nelle librerie inglesi e successivamente americane The Dreamland Express, un’opera che sembrava raccogliere tutta l’eredità di Little Nemo, quasi un passaggio di staffetta tra fumetti e libri illustrati. L’autore di testo e disegni, uno scozzese di nome Harold Robert Millar, era già apprezzato per i disegni pubblicati su Punch e The Strand fin dai primi anni del Novecento, e soprattutto amato dai bambini per le illustrazioni fiabesche di molte opere circolanti nell’Inghilterra vittoriana. Il suo lavoro era stato richiesto per affiancare nomi noti della letteratura ma la collaborazione più intensa era stata quella con la scrittrice Edith Nesbith e The Book of Dragons era l’opera che aveva consacrato la fama di entrambi. Il retaggio ottocentesco delle illustrazioni per quest’ultimo libro si fonde in The Dreamland Express con un liberty nostalgico, caparbio nella sua esistenza e inspiegabilmente seminale per il fumetto francese del secolo successivo, si pensi ad autori come Moebius, Philippe Druillet e soprattutto Francoise Schuiten. Dico che la parentela appare inspiegabile in quanto il libro di Millar è sconosciuto ai più e quasi mai riportato nelle biografie dell’artista, nonostante appaia decisamente come il suo capolavoro e sia stato ristampato almeno due volte (ma anche le ristampe sono difficili da trovare). Una spiegazione semplice in realtà c’è: gli artisti citati forse non hanno mai visto The Dreamland Express ma di sicuro conoscono Little Nemo (Moebius negli anni Novanta è anche stato coinvolto nella realizzazione di un cartone animato dedicato al personaggio). Eppure il libro sembra costituire il vero tramite tra McCay ed i suoi eredi. L’opera si apre con un prologo che riporta la firma dell’autore e recita all’incirca così: “Cari bambini, quando ero un ragazzino ho sperato tanto in un libro come questo ma sono cresciuto fino a diventare adulto mentre aspettavo. Poi, pensando che avrei atteso ancora fino a quando non avrei avuto una lunga barba bianca e mi sarei appoggiato traballante al bastone, mi sono fatto il libro da solo. Dunque eccolo qua; spero vi piaccia. Ora ho solo due desideri. Il primo, che tutta questa storia sia reale; l’altro, che io e voi possiamo vivere insieme questo viaggio. Trascorreremo allora un periodo meraviglioso, siatene certi!” Segue il disegnino di un vecchietto canuto che si regge sui bastoni guidato da una tartaruga. Questa prefazione è già un incipit e dichiara che la complicità tra autore e lettore sta nell’immedesimazione: lo scrittore, che è stato fanciullo e ricorda bene quello stato dell’esistenza, desidera rimanere tale (e certo letteratura -e soprattutto poesia- sono pieni di altri casi più celebri) e chiede ai lettori/bambini di partecipare al viaggio per esaudire il suo desiderio. Ed il viaggio inizia con tre ragazzini, John, Peter e George, i quali in una bella serata estiva sono andati a letto presto avendo programmato una escursione per la mattina seguente. I tre vengono svegliati di soprassalto da un fischio acuto e potente, come quello che solo una locomotrice può emettere. Ed infatti un misterioso treno è fermo sui binari in mezzo al bosco proprio sotto casa ed i tre amici, già preparati all’avventura, decidono di salire a bordo. Un quarto ragazzino vestito da capotreno sarà la loro guida, conducendo la macchina a vapore, tra emissioni di fumo più volte echeggianti i dipinti di William Turner, in un viaggio impossibile. E’ un inizio palesemente derivato da Little Nemo con un meccanismo di narrazione inversa (1): si apre con una dormita e si passa poi ad un risveglio ma si lascia intendere che forse si sta ancora sognando. Se non fossimo convinti di questa derivazione le pagine che seguono, piene di architetture strabilianti in perfetta prospettiva (Millar aveva studiato arte ma la sua prima formazione era ingegneristica), fugano ogni dubbio. Non solo: giunti a pagina 29, ci imbattiamo in una bambina che si veste da principessa, e l’immagine che la ritrae è una diretta citazione, sebbene al femminile, del personaggio di McCay. L’incontro avviene nella città di Nunchel, nome ambiguo, forse incompleto, in quanto il narratore stesso afferma di non ricordarsi le lettere finali (penso ancora al fumetto francese, alle amnesie dei personaggi di Schuiten e ad Arzack di Moebius, suscettibile di variazione ortografica ad ogni avventura). Il sistema con cui Millar comunica ai lettori certe sue riflessioni come la dimenticanza appena citata, è quello di note a margine riportate tramite asterischi, quasi ci fossero più livelli di narrazione, uno dei quali strettamente confidenziale. In una di tali note si afferma anche che ciò che vedono i tre amici non può essere descritto ma poi lo stesso autore offre immagini estremamente dettagliate di ogni luogo. Per uno di questi, chiamato “the valley of silver bridges”, Millar potrebbe essersi ispirato alla ormai celeberrima incisione presente all’interno di Un autre monde di Grandville con il ponte che scavalca i pianeti, la quale, viste le citazioni identificate dalla ricerca nel campo della storia dell’illustrazione negli ultimi vent’anni, è considerata un’immagine apripista. Alla precisione prospettica delle architetture e alla cura dei loro particolari non corrisponde alcuna coerenza di collocamento storico. Ciò non costituirebbe in sé fatto singolare se non fosse che invece, relativamente ai costumi dei popoli indigeni, vi è una attenta verosimiglianza; la labirintica città di Herou appare una fantasiosa commistione di stili del passato, con palazzi sul cui esterno crescono scale copiate dai passaggi segreti della piramide di Cheope, ed i giardini pensili poggiano su tavolati da ponte levatoio del medioevo europeo; ma i suoi abitanti sono vestiti da antichi Babilonesi con perfetto rigore storico. L’eclettismo di Millar, che mitizza il passato con l’idea dell’irraggiungibilità delle dimensioni, è finalizzato a condurre i lettori dentro ambienti percepiti come infiniti. Sembra debitore delle incisioni di Piranesi, ma l’estetica liberty ha preso il posto di quella preromantica. Guarda caso proprio come accade nel ciclo delle città invisibili del già citato Francoise Schuiten. E poi abbiamo stazioni ferroviarie con l’aspetto da padiglioni di esposizioni universali, grotte con tesori pirateschi e miniere tanto cariche di monete d’oro da diventare come un lago, che conducono inevitabilmente l’appassionato di fumetti a pensare ai tuffi con cui Carl Barks fa divertire lo zio Paperone all’interno del suo deposito. I tre amici si trovano coinvolti nell’incendio di Ebonabad, mostrato attraverso una tavola notturna di gusto tardo catastrofista, scura nell’atmosfera generale ma smagliante nel blu della bandiera arrotolata in primo piano. Seguendo i canoni dell’avventura si combatte anche, più volte, contro un branco di leoni che attacca la locomotiva, poi per la liberazione degli schiavi (proprio nel 1927 l’Inghilterra attraverso il trattato di Gedda stabiliva l’ultima abolizione della tratta degli schiavi, relativa a Neged ed Hegiaz). Nell’ultima spettacolare tavola a colori, i ragazzini, il cui numero va aumentando nel corso della storia, si affacciano sul tetto del mondo: l’inquadratura a volo d’uccello ce li mostra sdraiati a terra, con le mani saldamente aggrappate sul ciglio per lasciar sporgere fuori giusto le teste. Una sensazione da brivido che in molti abbiamo voluto provare nell’infanzia. Ma quanto avviene davanti ai loro occhi resta al di fuori del disegno. Un trucco per la rappresentazione dell’infinito che sa molto di Friedrich e di Leopardi. L’artista comunica così più messaggi: in primis che ciò che i giovinetti, e non solo quelli protagonisti del racconto, riescono a vedere è invisibile agli adulti. In secondo luogo quella tavola diventa rappresentativa dell’intero libro stesso: divisa in due, per metà occupata da soggetti concreti, e per metà costituita dal vuoto. Vale a dire un libro in cui si narra di personaggi e mezzi reali, bambini e treni, disegnati in modo concreto e senza approssimazioni, ma capaci di vivere l’avventura in un mondo che non è quello comune. I disegni, siano le grandi, a volte doppie, tavole a colori o quelli piccoli in bianco e nero, sono eseguiti a china; a volte, quando il buio invade gli ambienti, per esempio quando si giunge nella tetra Growl-land e le vicissitudini si venano di terrore, l’artista ricorre alla più sfumata matita litografica. I colori, sebbene in certi casi sembrino stesi senza grande perizia (tanto da far pensare ad una seconda mano), sono esaltati dalla tecnica della cromolitografia, attraverso la quale i libri per l’infanzia d’un tempo raggiungevano vette di luminosità e saturazione impossibili in seguito e difficili anche oggi (confrontando l’originale con le ristampe le differenze in proposito sono lampanti) (2). Per conferire credibilità ad un viaggio sulle nuvole l’autore fa ricorso alla sua formazione ingegneristica e rappresenta il mezzo di questo viaggio, che poi è quasi un personaggio, il treno, con grande verosimiglianza anche se frutto di certa ars combinatoria post Verne a cui oggi daremmo il nome di Steampunk. A pag.81 compare la celebre locomotiva Crampton, poi nel “Place where old engines go” molti altri modelli storici. Emblematica in proposito è l’immagine di copertina con il convoglio formato dai locomotori il cui sbuffo si unisce a quello del dinosauro/drago. A proposito di dinosauri, anche l’idea di introdurre un mostro preistorico nel racconto potrebbe essere derivata dallo studio di certi personaggi di McCay come Gertie (3) o il meno celebre Dino; Millar doveva essere infatti appassionato anche di animazione: a pagina 35 la scomposizione del movimento di un leone in corsa la dice lunga. Ma non è affatto mia intenzione ridurre Millar ad un semplice epigono di McCay, il libro si regge su basi artistiche solide ed autonome. Il distacco principale dal “maestro” si vede nella scelta del formato orizzontale del libro, che trasforma il liberty verticale ed ardito di McCay in liberty panoramico, avvolgente, molto cinematografico ben prima dell’avvento del Cinemascope.
Originalità ed inventiva dell’autore spiccano anche in coda al volume, dove si trova una pagina concepita a mo’ di album fotografico con tanto di simulazione di tagli angolari per l’inserimento delle stampe. Tre piccole immagini dipinte cercano la mimesi di vecchie foto in bianco e nero: la prima, con il treno quasi frontale, appare come un dichiarato omaggio all’opera “Pioggia, vapore e velocità” di William Turner. La seconda mostra uno dei protagonisti con il “Pariasauro”, e la terza uno scorcio della città di Ebonabad. Ciò che Millar suggerisce è che si può non credere ad un racconto scritto ed illustrato ma ci si deve arrendere all’evidenza della fotografia. Il mezzo fotografico è quello che più si presta alla rappresentazione della realtà, tanto da coincidere con essa (4). Il fatto che intriga di più è che c’è un quarto spazio lasciato vuoto, per l’inserimento di una foto ancora, forse a discrezione del lettore e delle sue avventure reali o sognate che siano. E chissà se qualche bambino all’epoca non vi abbia realmente inserito una sua personale immagine contribuendo al proseguimento del viaggio.
(1) Nelle avventure di Little Nemo, sebbene la narrazione avvenga sempre allo stesso modo e dunque il lettore abituale sia già consapevole che tutto si sta svolgendo su di un livello altro, solo il finale, con il bambino che si sveglia terrorizzato oppure cadendo dal letto, rivela che la storia è un sogno.
(2) Tali differenze di colore sono enfatizzate dalla qualità della carta: quella dell’edizione originale è pesantissima. Si pensi che il volume di 96 pagine ha uno spessore di due centimetri escludendo la copertina.
(3) Gertie the dinosaur, cortometraggio realizzato nel 1914 da Winsor McCay lavorando praticamente da solo, almeno per quanto riguarda la regia e la realizzazione dei disegni, costituisce un importantissimo pezzo della storia del cartone animato. Dino è invece un’opera a fumetti incompiuta, recuperata dal figlio di McCay per la prosecuzione delle avventure di Little Nemo.
(4) L’espediente è stato imitato, usando però vere foto di pupazzi, da Brian Froud ed Alan Lee nel libro del 1979 Fate, per il quale si rimanda all’articolo Le fate di Brian Froud nell’era di internet nella sezione Pergamene di questo sito.
Harold Robert Millar, The Dreamland Express, cartonato in quarto, formato orizzontale oblungo, London-Humphery-Milford-Oxford-University Press, 1927.
Ristampato da Crosesor Junction Press nel 1989 e da Dover nel 2014.
L’edizione originale americana coeva a quella inglese, a cura di Dodd, Mead & Company ha il dorso muto ed è fornita di sovraccoperta. Inoltra presenta alcune tavole inserite nel libro in modo leggermente diverso. Al momento in cui questo articolo è stato redatto (Luglio 2021) le scarse copie in buone condizioni disponibili in rete vengono valutate tra i 400 ed i 500 dollari, l’unica con la sovraccoperta 1650 dollari.
01. Paolo Forni
Ottimo articolo con dovizia di particolare ed ampia documentazione
02. Giorgio Perlini
Mi fa molto piacere sapere che c’è qualcuno che apprezza. Grazie!
03. Francesco Giovagnoli
I primi libri di L.N. li abbiamo presi nei magazzini della libreria Cattolica, metà fissa nei pomeriggi invernali….
04. Giorgio Perlini
Eh già…hai letto a chi è dedicato il sito?