di Giorgio Perlini
Per un libro di poesia nato nell’humus magico-simbolista fin de siècle fregiarsi di un titolo sibillino è atto dovuto. La sorpresa è che il libro non proviene dai grandi padri francesi ma dai loro epigoni italiani, la cui gioventù, se da un lato rivela una connaturata acerbità, dall’altro compensa con altrettanto connaturato entusiasmo ed anche con sfoggio culturale. I Modi – Anime e Simboli è la prima opera in versi del milanese Romolo Quaglino, (1871- 1938), figlio di un celebre chirurgo oculista, nonché patriota; anche Romolo si interessa di politica ed inizia a scrivere a soli vent’anni sulle tematiche del Socialismo, poi questa passione si intreccia con qualcosa di opposto che sa di solitudine, distanziamento dalla mondanità, quasi un decadentismo non esibito; forse dovremmo tener conto di una predisposizione alla tristezza, di certo alimentata dalla frequentazione letteraria di personalità ed argomenti che del vivere elitario avevano fatto un caposaldo. Intendiamoci, uno che sceglie di diventare avvocato non può essere un completo asociale, ma un temperamento malinconico può anche possederlo.
Gianni Maimeri, allora pittore, poi fondatore della nota ditta produttrice di colori per artisti, ce ne lascia un ritratto nell’anno della scomparsa con lo sguardo illanguidito e trasparente ambientato in uno studio dove par di vedere galleggiare delle evanescenze, forse gli stessi antenati appesi alle pareti: ciò in piena e curiosa sintonia con quanto rilevò Salvatore Spinelli, dirigente dell’Ospedale maggiore di Milano e scrittore che disse di Quaglino “diede agli studi e all’arte dello scrivere tutto se stesso (…) Componendo e poetando egli ebbe sempre davanti le immagini dei suoi morti”.
Ma il mistero de I Modi – Anime e Simboli, sebbene architettato da Quaglino, è frutto nella sua resa finale della collaborazione con due amici; uno è Gian Pietro Lucini, poeta e critico di tendenze politiche rivoluzionarie, che scrive una lunga e sentimentale introduzione al libro dell’amico d’infanzia, elogiandolo forse in previsione dei giudizi contrastanti che l’opera avrebbe suscitato. Questo proemio ci immerge nelle viscosità di una lettura che permane anche quando la prefazione termina, ricordandoci che alla poesia si è soliti attribuire una leggerezza sinonimo di frivolezza che non sempre le è congeniale. L’altro co-autore è Lodovico Cavaleri, milanese anche lui (1867 – 1941), pittore paesaggista che negli anni della maturità cercò di coniugare il realismo con una visione intima in una moderna interpretazione del concetto di paesaggio interiore, tanto caro all’arte del Romanticismo. Si potrebbe dire che i paesaggi di Cavaleri sono interamente copiati dal vero e ciononostante la scelta del luogo e del momento conferisce loro qualcosa di “altro”. Cavaleri è l’esecutore delle 11 fascinose illustrazioni che corredano le poesie. Nel 1895, data riportata sulle tavole, aveva 28 anni, quattro più di Quaglino eppure appare docile sotto la direzione del poeta e si presta alla creazione di immagini ben più misteriose dei suoi paesaggi; del resto era un artista versatile che si prestò al manifesto pubblicitario e all’incisione. Ma questo non basta per capire il motivo per cui venne identificato dal poeta come il perfetto illustratore del libro. E allora bisogna sapere che nel 1892 egli aveva già illustrato i versi dell’amico comune Gian Pietro Lucini, (all’epoca intriso di Simbolismo, successivamente avanguardista ante-litteram, in contatto con il movimento futurista) in una delle opere auto prodotte a tiratura limitatissima che l’autore era solito realizzare per pochi intimi. Insomma i tre appaiono costituire un sodalizio nel nome dell’amicizia e di un sentire comune. Le 11 tavole de I Modi appaiono lontane dalla pittura di Cavaleri ma anche più enigmatiche dei versi di Quaglino eppure perfettamente connesse ad essi. Per questo nella sua interezza I Modi – Anime e Simboli si configura come una creazione totale del poeta. Il raffinato Cavaleri esaudì le richieste dell’amico apportando a tanta complessità ermetica una certa naiveté quasi fiabesca, specie nella rappresentazione dei draghi e delle belve. Tali illustrazioni sono portavoci di un sincretismo intellettuale che non coinvolge solo cultura e religione ma anche la sfera artistica, che contempla il revival neo egizio del secolo precedente e la miniatura del Gotico cortese occhieggiando a certe incisioni dei grimori medievali e alle atmosfere liriche del paesaggio romantico. Osserviamone alcune: l’apertura è esoterico-cristiana, la prima tavola mostra il titolo sovrascritto all’albero della vita/conoscenza le cui radici sono l’alfa e l’omega inserite in un sole fiammeggiante che richiama quello di S.Bernardino e che rappresenta il Dio cristiano, dunque l’inizio e la fine, intorno a cui è tutto un fiorire e fruttare. Ma il sole è anche emblema di Ra, ed infatti ai lati della figurazione compaiono Babi ( la divinità-babbuino egizia collegata alla fertilità ed alla lotta per la verità contro l’ingiustizia e la menzogna), ed Horus (la guarigione e la sconfitta del disordine). L’immagine funziona come una sorta di introduzione-riassunto per passare poi al capitolo Caput (la Testa) con cui si entra nel genere grottesco. L’occhio del lettore è polarizzato da due teschi che conservano le chiome come accade in certe antiche mummie ma il “memento mori” viene reso più lieve dal volo delle farfalle, chiara allusione all’anima-psychè. L’avvoltoio è Nekhbet, divinità protettrice dell’Alto Egitto, forse collegata alla testa per posizionamento, almeno verbale(1). Invero Nekhbet è anche collegata alla protezione della vita nell’aldilà. Traducendo le parole in latino abbiamo: Metà delle Pleiadi – secondo l’esegesi caldea. Vengono inseriti i segni delle costellazioni e dei pianeti, in questo caso la Vergine, i Pesci e Giove. In questo capitolo i versi sono ispirati a Baudelaire e a Boito: evocano miasmi, peccati, figure larvali e depravazione ma risultano anche intrisi di scientismo pessimista. L’associazione tra bellezza e perdizione, menti solenni e fantasmi è decisamente efficace. Il titolo Caput, la testa, indica che il componimento è dedicato alla creazione, sia essa scientifica che artistica. E si inizia a comprendere che la parola Modi del titolo va probabilmente intesa nell’accezione latina di Tipologia, Genere.
Seguono Le dedicatorie, in cui Quaglino elogia i suoi due collaboratori. Cavaleri, riferendosi agli stessi versi che il poeta gli dedica, illumina il capitolo con un’alba primaverile fiorentina intrisa nell’oro delle pale d’altare gotiche, efficacemente reso dalla stampa in cromolitografia del libro. Poco importa se si parla erroneamente di “cupola di Giotto” confondendo il campanile di Giotto con la cupola di Brunellesci, l’immagine di S.Maria del Fiore eseguita da Cavaleri è perfetta e lirica. Quaglino è colpito dal tragico destino di Maria Vetsera nel castello di Mayerling e rivede nell’aspetto della ragazza certi profili di nobildonne rinascimentali, come quelli dipinti dal Pollaiolo.
La terza dedica è al padre Antonio. Così viene inserita una tavola con banda nera da lutto, ancora l’alfa e l’omega ed il ChiRo cristiano. Le fronde d’alloro alludono alla sapienza ed alla gloria del genitore scomparso. A lato compare una firma del poeta stesso riprodotta a stampa. La data indica il primo anniversario della morte.
Mens è un inno alla conoscenza. Su di un ripiano sono accatastati libri e pergamene, parzialmente leggibili. Si identificano i Salmi e Gli Atti degli Apostoli (“Non possumus”, dunque non il non poter rimanere muti relativamente a quanto si è imparato). E qui, come si suol dire, il mistero si infittisce e la ricerca si fa avvincente: uno dei volumi infatti è riconoscibile come “Syllabo”, probabilmente non inteso in qualità di indice generico ma come riferimento al Syllabus con cui Pio IX nel 1864 condannava quelli che riteneva “i principali errori del nostro tempo”. Tra questi figuravano il panteismo, l’ugaglianza delle religioni, le società segrete. Così il “non possumus” diventa una risposta negativa all’indice papale, risposta illuminata dall’apparizione evanescente della dea della sapienza Atena, e dalla sua più concreta civetta. Uno degli attributi di Atena è quello di essere glaucopide (ovvero dagli occhi celesti o di civetta) ed infatti intorno alla lettera M della parola “Mens” Cavaleri inserisce tre occhi fiammeggianti che simboleggiano il vedere oltre le apparenze anche nel buio. I versi di Quaglino tirano in ballo la storia della Chiesa, la mitologia, la filosofia e le teorie evoluzioniste cercando di poetare intorno a temi tutt’altro che sentimentali. Penso a questo punto che sia più intrigante lasciare al lettore l’analisi delle immagini successive, tenendo conto che non tutto è riconoscibile e spiegabile in modo univoco e nel credo esoterico degli autori le chiavi sono nelle mani di pochi. Commento però le ultime due perché le sento particolarmente vicine al mio spirito e forse Quaglino ne sarebbe felice.
Una è quella che rappresenta Le Armonie: protagonista è la dea stellata Nut, ovvero il cielo, arcuata sopra al sole, intorno al quale ellitticamente ruotano i pianeti e circolarmente i loro simboli. L’armonia è cosmica e tutto si muove al suono della lira d’Apollo. Ritorna anche la simbologia della pianta come nascita, crescita e maturazione. Un’ immagine raffinata e leggerissima, da osservare cambiando l’inclinazione della pagina sotto la luce per godere appieno degli effetti splendidi delle dorature. Cercando l’armonia del tutto nei versi ci si imbatte anche in una personale interpretazione dell’autore delle corrispondenze di Rimbaud.
L’ultimo capitolo …E la coda si apre con una illustrazione direttamente collegata al passo di pag.177 “L’Anima corre ad un bieco sentiero/ circondato da rocce e da burroni,/ e stan presti a la preda due dragoni,/ scotendo l’ale nel turbine nero./(…) Perché, Anima tremi? L’orizzonte/ si disegna a le vette con bagliori/ e con riflessi rosei li albori/ guizzan sui pini e sul riarso fronte”.
Dunque la bianca ruota alata, forse più una bolla che una ruota, visibile nell’immagine è l’anima che attraversa la valle oscura dantesca. La simbologia stavolta non appare derivata ma invenzione originale degli autori. I draghi echeggiano Paolo Uccello, le piante certi erbari del Rinascimento. I versi conclusivi mi sembrano particolarmente pregnanti: “Il punto del problema/ sta qui: nel ricercar la via mediana,/ nel tutelar la specie e l’organismo,/ nel tutelar la nostra razza umana/ senza pregiudicar l’idealismo./ La religione, forse per compenso/ de la sacerdotal sterilità,/ invita sempre a la fecondità/ ed è benigna a li errori del senso/. Ma noi diciamo freddamente: molto/ meglio amare quel meno che si può;/ il libertino è sempre un uomo stolto,/ e s’è felici quanto men si amò”.
Il ritratto di Quaglino che emerge dall’opera è quello di un intellettuale solitario che si interrogò sul vivere, cercò oltre il visibile, scovò corrispondenze tra micro e macro cosmo e compose versi. Forse non raggiunse vette poetiche ma questo libro è una delle creazioni più significative di quel sentire simbolista che non fu solo francese e che, anticipato dalla Scapigliatura, visse anche in Italia una sua fugace stagione.
Due parole infine relative alla veste editoriale del libro: la copertina medievaleggiante con titolazione a caratteri onciali è purtroppo scolorita ai limiti della leggibilità ma questa è una costante delle (rare) copie che ho visto. L’aspetto risulta sobrio, fin troppo per il tipo di opera e per le immagini che contiene, un semplice cartoncino senza telatura come quasi tutti libri dell’editore Chiesa, i quali spesso giungono a noi con copertine strappate o rifatte. La copia in questione però è particolarmente degna di attenzione in quanto riporta due firme autografe, una dello stesso Quaglino, l’altra del già citato Salvatore Spinelli, il quale probabilmente ne fu possessore.
(1) Dal punto di vista geografico per Alto Egitto si intende la zona segnata dal corso del Nilo escludendo la foce, dunque la parte più a Sud, che idealmente sarebbe più immediato collegare al corpo piuttosto che alla testa.
I Modi – Anime e Simboli, testi di Romolo Quaglino, illustrazioni in cromolitografia con oro di Lodovico Cavaleri, Edizioni Chiesa, Omodei, Zorini e Guindani, 1896, formato in ottavo.
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